Campo coltivato ad Albiate. Foto: Giuseppe Caprotti
“L’agricoltura… sollecitava un’attenzione costante, diremmo quasi una partecipazione emotiva (dei Caprotti) …
Giuseppe che pure non trascurava la sua industria, si preoccupò, oltre che della seta, di introdurre … delle colture ortofrutticole, spezzando così la monotona triade frumento – granoturco – avena che tradizionalmente dominava il paesaggio agrario di quelle regioni. Iniziò perciò la coltivazione di numerosi ortaggi ed alberi da frutto, non dimenticando la vite…
si sentiva, in un certo senso, un “agrario” e non a caso, almeno fin dal 1876 fu membro del comizio agrario del circondario di Monza…”
Da “I Caprotti, L’avventura economica e umana di una dinastia industriale della Brianza” di Roberto Romano, Franco Angeli, 1980
Una mappa della Brianza con Seregna (Seregno), Macchè (Macherio), Suigo (Sovico) e Albiate
L’agricoltura in Brianza: storia e opportunità
Introduzione: breve storia del territorio della Brianza (secoli XI – XX)
È difficile determinare dove inizia e dove finisce la Brianza dato che non esistono dei veri e propri confini che la delimitano; lo stesso Cesare Cantù, storico e letterato ottocentesco originario di questi luoghi, scrive che “Brianza è denominazione piuttosto indeterminata della quale non si conoscono né l’origine, né il significato, né i limiti” [2] .
La definizione popolare dei suoi confini vuole che inizi lì dove Milano finisce e si estenda fino a lambire le sponde del Lago di Como e le Prealpi a Nord, il fiume Adda e la provincia di Bergamo ad Est, il fiume Seveso e la provincia di Varese ad Ovest.
Il nome Brianza, secondo gli studiosi più autorevoli, trova la sua base etimologica nel termine celtico brig, il cui significato è “altura”, “collina” e che ancora oggi ha un suo corrispettivo nella parola dialettale bricch.
Questo nome rispecchia la natura collinare del territorio, che nel passato trovava il suo punto di riferimento nel Monte Brianza – un’altura situata tra i comuni di Rovagnate e Galbiate nei pressi di Lecco – che oggi corrisponde al paese di Monticello Brianza, ultimo comune della Provincia di Lecco e primo che si incontra provenendo dalla Provincia di Monza e Brianza.
Il colle Brianza
Originariamente il nome “Brianza” identificava unicamente il limitato territorio circostante questa altura ed è solo in epoca medievale che il nome divenne rappresentativo di tutta l’area compresa tra le Provincia di Milano, Como e Lecco.
Il De Capitani D’Hoe, nel suo Trattato sull’agricoltura del monte di Brianza del 1809, descrive questo luogo come la parte forse più deliziosa del Dipartimento del Lario, la quale si estende dall’est al nord al di qua dell’Adda, ed è un aggregato di fertili e vaghissime colline, ove l’arte o la natura sembrano aver fatto a gara per unire l’utile al dilettevole [3] .
Nel medesimo trattato viene citato il parroco di Viganò (piccolo comune in provincia di Lecco), il quale così descrive l’estensione del territorio brianzolo: è composto presentemente dei Cantoni di Merate, di Missaglia, di Oggiono, di una porzione del Cantone di Erba al di qua del Lambro […] e de’ Maveri del cantone Lario; ed in gran parte del Cantone della Costa nel Dipartimento d’Olona.
Da questa descrizione si evince che all’inizio del XIX secolo la Brianza presentava dei confini molto simili a quelli che oggi gli attribuiamo, ovvero si estendeva dalla provincia di Lecco (Merate, Missaglia, Oggiono) a quelle di Como (Erba e parte del Cantone del Lario) e Milano (Dipartimento d’Olona) [4] .
I primi documenti scritti che attestano il riconoscimento del territorio brianteo come entità burocratico-territoriale risalgono all’inizio dell’XI secolo d.C.
Più precisamente troviamo il nome Brianza in un documento di lascito di una ricca vedova milanese datato 16 Agosto 1107. Nel suo testamento la donna esprime la volontà di donare i suoi possedimenti Brianzoli al monastero cluniacense di San Nicolao, che oggi si può individuare in un piccolo paese in provincia di Lecco[5] .
L’analisi etimologica del nome Brianza ci riporta ai primi abitanti di questo luogo di cui si hanno tracce: i Celti, che arrivati in più ondate migratorie intorno al 400 a.C., si stanziarono in tutta l’Italia Settentrionale.
In particolare nel territorio milanese e brianzolo si stanziarono i Celti Insubri, che costituirono la prima organizzazione a livello regionale e fondarono la città di Milano, capitale del loro regno.
In seguito i Romani, nel 222 a.C., sconfissero i Galli nella battaglia di Clastidium [6] e sottomisero l’intera area annettendola ai loro domini con il nome di Gallia Cisalpina.
I Romani nel corso dei secoli imposero a questo territorio un’organizzazione politico militare, fondarono città, alcune in corrispondenza dei precedenti insediamenti e altre nuove, costruirono importanti strade, che si sono conservate nei secoli e che oggi trovano un corrispettivo nelle principali autostrade e strade statali che attraversano questo territorio.
Dopo la caduta dell’Impero Romano l’intera regione venne occupata dai Longobardi, da cui deriva l’attuale nome Lombardia, che stabilirono a Monza la capitale estiva del Regno e che regnarono fino alla fine dell’VIII secolo d.C., quando furono sottomessi dai Franchi di Carlo Magno.
La corona ferrea di Teodolinda, regina dei Longobardi
A partire dall’XI secolo d.C. il suolo brianteo è teatro di aspre battaglie e molti si succedono nel controllo di questo territorio in epoca comunale: Francesi, Spagnoli e Austriaci imposero il loro dominio alternativamente fino al 1814-1815, anno del Congresso di Vienna e della “restaurazione” che portò alla costituzione del Regno Lombardo-Veneto, dipendente dall’impero Austriaco.
Con la seconda guerra d’indipendenza, la Lombardia entra a far parte del Regno di Sardegna (1859) e in seguito nel Regno d’Italia (1861), perdendo così definitivamente la sua autonomia regionale.
Oggi con “Brianza” si identifica un territorio di circa 900 Km² compreso tra le provincie di Como, Lecco, Milano e Monza e Brianza. All’interno di questo triangolo – questa è la forma che meglio rappresenta la sua estensione territoriale – possiamo contare circa 150 comuni e oltre 1.200.000 abitanti (vedi anche “Un amministrazione interna industriale perfetta: il “cotè privè” dei Caprotti (secoli XIX- XX), su questo sito.
Una caratteristica molto rilevante è l’altissima densità abitativa; se si considera la media nazionale di 199,9 ab./km², la media brianzola con i suoi 1372 ab./km² risulta essere sette volte più elevata. E’ un dato ragguardevole che, però, ben rispecchia l’attuale situazione di questo territorio, famoso per essere una delle aree più industrializzate d’Italia, patria delle piccole medie imprese – PMI (1 impresa ogni 13 abitanti) e del distretto del mobile.
Se si considerano rappresentativi di tutto il territorio i dati della Provincia di Monza e Brianza, si nota che anche il tenore di vita dei suoi abitanti è ben al di sopra della media nazionale: infatti, mediamente un cittadino brianzolo ha un reddito medio di 25.725 euro, a fronte della media italiana di circa 18.000.
L’agricoltura in Brianza: storia e opportunità
Tra il 1835 e il 1839 la sola cittadina di Monza contava 559 possessori terrieri [7] , che davano lavoro a decine di migliaia di contadini ed alle loro famiglie, mentre oggi in tutta la provincia di Monza e Brianza non si contano più di 1000 aziende agricole che, nella maggioranza dei casi, sono composte da una sola persona.
L’agricoltura briantea, che per secoli è stata la principale fonte di ricchezza del territorio e che ha prodotto eccellenze rinomate in tutto il territorio nazionale, a partire dalla seconda metà del XIX secolo inizia una lenta ed inesorabile decrescita.
Per capire le ragioni di questa crisi nei prossimi paragrafi si analizzerà l’evoluzione del comparto agricolo brianzolo dall’inizio dell’800 a oggi.
L’agricoltura nella storia del territorio
In tutta questa estensione di paese nulla si presenta di sterile o di abbandonato; e da calcoli presuntivi si può assicurare, che una metà del territorio è occupata da’ campi, vigne, prati e pascoli; e l’altra metà da boschi e selve [8] . Così si presentava il territorio brianzolo all’inizio del XIX secolo.
I contadini briantei erano specializzati nella coltivazione del mais, principale fonte energetica nella loro dieta, nella gelsi bachicoltura (allevamento del baco da seta, che si nutre delle foglie del gelso), e nella viticoltura.
Un ruolo di primo piano era occupato anche dalla frutticoltura, che su questo territorio vantava ottimi risultati, soprattutto da un punto di vista qualitativo. La frutta inoltre, essendo meno soggetta ai vincoli contrattuali con cui i contadini erano legati ai proprietari delle terre, poteva essere raccolta e venduta nei mercati, permettendo così al contadino di avere maggiori entrate economiche.
A causa di questa situazione, la pratica di piantare alberi da frutto si diffuse moltissimo, tanto che sempre il De Capitani riporta nei suoi scritti che non sarebbe un male che i signori proprietarj, a’ quali d’ordinario pochi frutti appartengono, ne facessero sradicare una gran parte, o almeno quelli che opprimendo i vigneti, ci obbligano a cogliere uve poco mature” [9] .
Il curato si mostra preoccupato per questo fenomeno, sopratutto perché iniziava ad influire sulla produzione vitivinicola, che costitutiva una delle eccellenze e delle più grandi ricchezze di questa regione.
La viticoltura brianzola ha una lunga storia e i primi documenti scritti che attestano la sua diffusione risalgono al I secolo a.C., quando il geografo greco Strabone nel capitolo IV della sua Geografia scrisse che osservò i Galli cisalpini “bere vino con eccezionale piacere da botti grandi come case”. Altre fonti riportano che durante la dominazione longobarda si provò a diffondere il consumo e la produzione della birra, ma questo tentativo venne presto abbandonato in quanto il consumo di vino era largamente diffuso e radicato nelle tradizioni delle genti del luogo.
In epoca più tarda troviamo un riferimento ai vini brianzoli in un’opera di Ortensio Stefano Lando, che descrive questi vini come figli del Signino, vino austero e molto atto a restringere il ventre [10] .
In tempi ancora più recenti moltissimi scrittori hanno cantato le lodi del vino brianzolo: primo fra tutti è il poeta Carlo Porta che nel “Brindes de Meneghin a l’ostaria per l’entrada in Milan de Francesch Primm” del 1815 riporta un lungo elenco di vini di questo territorio, dicendo che qualora si fosse assaggiato uno di questi vini non se ne sarebbero più bevuti altri.
Nello stesso periodo anche il francese Stendhal, all’interno della sua opera “Voyage dans la Brianza”(1818), decanta le lodi di questa regione e ne apprezza la tradizione enogastronomica.
Oltre alla viticoltura, ricopre un ruolo di primo piano in Brianza la gelsibachicoltura, che forniva la materia prima alle filande lombarde e produceva semilavorati serici che venivano venduti in tutta Europa.
La coltivazione dei filari di gelsi (moron), le cui foglie costituivano il principale alimento per i bachi da seta, era molto sviluppata fin dai tempi dei Visconti, anche se è con la dominazione asburgica e il dominio di Maria Teresa d’Austria che raggiunge il suo apice.
Sul finire del XVIII secolo questa coltivazione conosce un grave periodo di crisi a causa del “calcino” [11]impiegherà decenni per tornare a rifiorire, all’inizio dell’Ottocento. Alla fine del secolo la produzione è notevole: dati dell’Alto Milanese, in riferimento a 92 proprietà, parlano di una quantità di seme/bachi allevati di 11.442 once su 13.573 ettari di superficie di aratorio gelsato [12] .
Ancora oggi, in alcuni luoghi, è possibile ammirare lunghi filari di gelso che costeggiano i perimetri dei campi e i viali che portano alle cascine.
Le cascine brianzole d’inizio Ottocento ricalcavano, con dimensioni ridotte, il modello delle cascine lombarde e nella fattispecie quello a corte aperta, detto anche a “U” rovesciata o “ferro di cavallo”, che consisteva in un complesso di caseggiati disposti secondo una pianta rettangolare e con un lato aperto.
La così detta “Curt” trova le sue radici nel modello della “curtis longobarda”, l’azienda agricola attorno alla quale ruotavano la dimora signorile, gli alloggi dei coloni, le stalle e i magazzini.
La Curt fino alla metà del XIX secolo rappresentava l’unità fondamentale della società brianzola, era il centro della vita sociale, giuridica, economica e religiosa del recente passato [13] .
La maggior parte delle cascine brianzole erano di proprietà di ricche famiglie di Milano, che le affittavano direttamente ai coloni o davano l’incarico ad agenti di affittarle.
Il sistema che regolava gli affitti tra i proprietari ed i coloni era molto articolato, ma vi si possono distinguere due grandi categorie di contratti, quelli a mezzadria e quelli a denaro.
Fino a metà del ‘700 nell’alta Lombardia i sistemi più diffusi erano quelli di mezzadria e più specificatamente quelli di mezzadria mista all’affitto.
Nei contratti a mezzadria pochi erano quelli che comportavano una perfetta divisione sia dei beni che delle tasse tra locatore ed affittuario; la maggior parte dei contadini erano costretti a dare al padrone più della metà del raccolto o del guadagno da esso ricavato e a pagare gran parte, se non tutte, le tasse.
Oltre a ciò, dovevano rispettare le richieste aggiuntive che il padrone imponeva in appendice al contratto e che per questa ragione venivano comunemente chiamate “appendizi”; tali richieste andavano dai comuni tributi in uova e pollame, fino all’obbligo di fornire un servizio di trasporto qualora il padrone lo richiedesse.
Il contratto in denaro, col passare del tempo, inizia a sostituire quello a mezzadria, aggravando ulteriormente le condizioni di vita delle famiglie contadine: esso consisteva nel pagare in denaro l’affitto della terra e della cascina, nonché sostenere tutte le spese relative alla coltivazione e giornate d’obbligo lavorative a salario fittizio e prestabilito.
La ragione per cui in questa zona si diffuse così tanto il contratto d’affitto in denaro è da ritrovarsi nel fatto che la maggior parte dei proprietari dei terrieri erano nobili o ricchi milanesi che per la gran parte dell’anno risiedevano in città ed andavano in Brianza solo per la villeggiatura estiva.
Per questo motivo preferivano ottenere una rendita economica dai loro terreni, anziché dei beni alimentari o dei prodotti che avrebbero poi dovuto rivendere.
Durante il Settecento e poi nell’Ottocento le condizioni di vita della famiglie contadine, che vivevano nei territori collinari della Brianza e del Comasco, andarono rapidamente peggiorando a causa della trasformazione dei contratti agrari:
» se prima, il tradizionale contratto di mezzadria veniva stipulato per una durata pluriennale tra il proprietario terriero e famiglie contadine di tipo patriarcale (composte da più unità coniugali, che generalmente disponevano di propri attrezzi e di animali da lavoro) consentendo un certo margine negoziale alla famiglia mezzadrile, che si proponeva come un gruppo di lavoro adatto alla coltivazione di poderi piuttosto ampi;
» successivamente, la progressiva sua sostituzione, nel corso del Settecento, con il contratto d’affitto a denaro, che era molto più oneroso per il contadino in quanto costituito dal versamento di una quota prefissata in grano, a cui si aggiungeva la metà di tutti gli altri prodotti, tra cui la seta grezza [14] , portò la famiglia contadina inesorabilmente verso uno status di miseria.
La grande diffusione del gelso – da 78,000 nel 1734 a 3,000,000 nel 1846 solo nel territorio di Como [15] – aggravò ulteriormente la situazione. I proprietari erano infatti indotti a spezzettare i poderi in piccole unità che potevano essere affidate con contratti annuali a famiglie nucleari appartenenti al ceto dei “pigionanti”, questi ultimi divenivano così dei salariati dipendenti in piena soggezione della volontà padronale. il numero di questi aggregati domestici di contadini poveri era ingrossato dalla polverizzazione delle famiglie patriarcali mezzadrili che soccombevano sotto il peso delle nuove forme contrattuali dell’affitto a grano.
Nemmeno l’attività di allevamento del baco riusciva a mitigare la povertà delle famiglie contadine, in quanto esse erano costrette a ricorrere al proprietario per l’acquisto di scorte e perfino della foglia con cui nutrire i bachi da seta, indebitandosi pesantemente. Il debito veniva poi saldato con la quota di bozzoli che sarebbe dovuta rimanere al contadino. In questo modo la famiglia contadina era sempre più povera ed il proprietario poteva disporre della totalità del prodotto dei bozzoli [16] .
Ad aggravare ulteriormente il bilancio agricolo fu, poi, la filossera che tra il 1860 e il 1870 distrusse la quasi totalità dei vigneti brianzoli i quali, come si è detto in precedenza, costituivano una grande risorsa di questo territorio [17] .
Gli effetti cumulati di questo periodo di crisi portarono ad una crescente proletarizzazione dei contadini, ma senza determinarne il distacco dalla terra e l’inurbamento, perchè ai membri della famiglia contadina – soprattutto alle donne ed ai bambini – si offriva la possibilità di svolgere un lavoro complementare che permetteva loro di sopravvivere. Donne e fanciulli venivano infatti impiegati nella trattura e nelle operazioni preliminari alla filatura della seta.
In questo modo il legame con il mondo rurale non veniva reciso e l’attività della trattura continuava ad essere un lavoro stagionale, che costituiva per la famiglia contadina una fonte di reddito con cui integrare i magri proventi della terra.
Si trattava di una struttura economica proto-industriale – o, come ha scritto il Cafagna, di “industria in bilico” [18] – all’interno della quale coesistevano la famiglia contadina e la fabbrica senza che si verificasse, almeno fino agli ultimi decenni dell’Ottocento, né un processo di de-industrializzazione e di ritorno all’agricoltura né la completa proletarizzazione e l’inurbamento dei contadini. Questo sistema economico-sociale rimase, in qualche misura, bloccato per quasi un secolo.
Negli ultimi decenni dell’Ottocento, però, la situazione inizia ad aggravarsi.
Nel 1890 lo sviluppo gelsibachicolo viene drasticamente compromesso a causa di due gravi malattie: la flacidezza che colpì il baco da seta e la diaspis che attaccò le piante di gelso [19] .
La viticoltura, sul finire del XIX secolo, è ormai inesistente e tutta l’agricoltura brianzola viene colpita dall’ampia crisi agraria internazionale dovuta alla caduta dei prezzi dei cereali – in seguito all’arrivo dei cereali americani.
La conseguenza più diretta delle peggiorate condizioni produttive fu l’ulteriore aggravarsi delle condizioni di vita delle masse rurali di cui anche il Manzoni nel XII capitolo dei Promessi Sposi ci dà un’accurata descrizione.
A ciò si aggiunsero le nuove richieste padronali, che prevedevano l’aumento del fitto a grano, la maggiorazione degli appendizi e infine l’aumento delle giornate che obbligatoriamente il contadino doveva garantire al proprietario in cambio, peraltro, di una paga inferiore a quella stabilita dal mercato. I contadini inoltre erano costretti a sostenere le spese per la coltivazione del fondo, mentre le imposte fondiarie venivano generalmente divise a metà.
Nell’estate del 1885 la situazione, ormai insostenibile, sfociò in agitazioni che si diffusero in numerosi mandamenti ed ebbero il merito di porre sotto accusa i contratti colonici, obiettivo di accese polemiche, in quanto riversavano sulle spalle dei coloni la maggior parte dei negativi effetti della crisi [20] .
Con le proteste, che raggiunsero il loro apice nel Luglio del 1885, proprio nel bel mezzo della stagione dei raccolti, i contadini chiedevano la riduzione del fitto e del canone per l’abitazione, l’abolizione degli appendizi e l’aumento del salario per le giornate obbligatorie. Questa situazione di crisi portò molti coloni a non riconfermare l’affitto della terra e ad abbandonare le campagne: scelta che fu possibile grazie al consistente sviluppo industriale del territorio che richiedeva un crescente afflusso di manodopera.
Tra il 1882 e il 1911 migliaia di contadini lasciarono i campi, determinando un consistente crollo percentuale degli addetti al settore che dal 48% del 1882, passarono al 32% del 1901, per raggiungere nel 1911 il 22% degli abitanti del circondario di Monza, vale a dire proprio in quella porzione di territorio equivalente alla Brianza milanese [21] .
Il territorio inizia a trasformarsi e con esso l’assetto urbano di molti paesi.
Dal 1879 la Brianza era interamente attraversata dalla linea ferroviaria (Milano-Monza-Como) e dai primi anni del Novecento molti paesi brianzoli erano collegati tra loro da una linea telefonica e molte case erano illuminate da corrente elettrica.
Le campagne si spopolano e le cascine subiscono una drastica riduzione degli ambienti rustici per ottenere spazi abitativi destinati alla crescente popolazione operaia e alla realizzazione di numerosi laboratori artigianali.
La produzione dei mobili, che iniziava a prendere piede su buona parte del territorio, favorì questa trasformazione, poiché era normalmente esercitata nei laboratori a domicilio, dove lavoravano i componenti della stessa famiglia aiutati da operai, apprendisti e garzoni.
Grazie ai benefici economici indotti dal fiorente artigianato, le famiglie brianzole iniziarono ad acquistare piccole e modeste casette, appena sufficienti ai bisogni di una sola famiglia e a rendersi indipendenti dall’onere della pigione [22] .
Da questa analisi emerge che in Brianza non si verificò un vero e proprio fenomeno di inurbamento ma piuttosto si svilupparono una moltitudine di micro realtà industriali dislocate su tutto il territorio.
Tanti piccoli paesi ospitavano piccoli distretti industriali specializzati in una o più produzioni.
E’ la fine della Brianza agricola e l’inizio della Brianza industriale.
L’attuale situazione del comparto agricolo
L’analisi dei dati statistici pubblicati dall’Istat e dalla Regione Lombardia, in uno con l’analisi storica esposta, consente di descrivere l’attuale situazione dell’agricoltura in Brianza con particolare riferimento ai territori compresi nell’amministrazione della provincia di Monza e Brianza, di cui si hanno a disposizione più elementi di valutazione.
Secondo tali dati, in Brianza la percentuale delle imprese agricole sul numero di imprese totali è di circa il 3%.
Un dato alquanto esiguo che negli ultimi anni è iniziato a crescere: infatti, mentre la riduzione delle aziende procede a tassi ancora elevati nelle aree di agricoltura intensiva di pianura (Lodi, Cremona, Brescia, Mantova) e della Valtellina, le imprese agricole iscritte aumentano nelle aree periurbane e nelle province nord-occidentali della regione (Varese, Como, Lecco, Monza e Milano).
Le nuove imprese che nascono in queste province, caratterizzate da un peso ormai ridottissimo dell’attività agricola, sono prevalentemente orientate verso le attività di servizio oppure verso settori scarsamente presenti negli ordinamenti produttivi lombardi (orto-floricoltura, viticoltura, frutticoltura, allevamento di specie minori) [23] .
Attualmente la coltivazione cerealicola (cereali da granella) e delle foraggere (erbai, prati avvicendati, pascoli) insieme al comparto florovivaistico costituiscono quasi il 90% della produzione agricola brianzola; se non si considera l’industria floricola, la quasi totalità della produzione agricola briantea è costituita da monocolture con un basso livello di differenziazione e altamente assoggettate alle variazioni di prezzo.
Si evidenzia come il 70% circa della Produzione Lorda Vendibile – PLV [24] sia realizzato con neppure il 10% della superficie agricola utilizzata: infatti, cereali e coltivazioni industriali, che occupano buona parte della superficie agricola brianzola, producono solamente il 7,41% della PLV (Produzione Lorda Vendibile), mentre le colture floricole e i vivai, pur avendo a disposizione una piccola porzione di territorio, contribuiscono al 68,57% della produzione lorda vendibile del comparto agricolo – vegetale.
Il settore orticolo, nonostante il peso limitato – 3,59% sul totale della PLV – appare, tuttavia, uno dei più dinamici e ricchi di prospettive, anche grazie allo stretto collegamento a valle con strutture associative di confezionamento e preparazione e al forte rapporto con la grande distribuzione organizzata[25] .
Il confronto tra l’analisi storica e l’analisi della situazione attuale dell’agricoltura brianzola evidenzia un declino dell’importanza del settore agricolo tanto in materia economica quanto in materia sociale.
I prodotti tipici
In questa sezione si vogliono presentare alcune produzioni tipiche della Brianza che potrebbero costituire la base di un rilancio dell’economia agricola del territorio.
L’individuazione di questi prodotti è avvenuta tramite l’analisi di testi, quali documenti storici, relazioni della regione Lombardia e del Ministero dell’Agricoltura, e la ricerca sul campo – attraverso interviste ai contadini del territorio.
L’obiettivo è quello di riconsiderare questo tipo di prodotti, in ragione del fatto che costituiscono un inestimabile patrimonio storico-culturale che va preservato e che potrebbero essere un’importante fonte di reddito per gli agricoltori locali.
Reintrodurre questi prodotti sul mercato locale significherebbe rivalorizzare l’intero territorio e, soprattutto, ricreare un legame tra gli abitanti e la terra.
Alcuni di questi prodotti sono oggi in via di estinzione e necessitano quindi di programmi di tutela e sviluppo mentre altri sono produzioni tipiche e largamente diffuse, su cui però si potrebbe lavorare in termini di qualità e di legame con il territorio.
Infine, si propongono alcuni prodotti che non sono tipicamente brianzoli (provengono da zone limitrofe) ma che in brianza per ragioni storiche, culturali e microclimatiche potrebbero riscontrare successo.
Tra questi prodotti si contano ben 7 diverse tipologie di formaggi, almeno 4 diversi tipi di frutta, 14 ortaggi, 7 razze autoctone, 8 tipi differenti di salumi e altri prodotti caratteristici.
Di seguito i prodotti divisi per categoria:
Formaggi
- Quartirolo
- Stracchino
- Taleggio
- Zincarlin
- Mascarpone
- Caprini di Montevecchia
- Gorgonzola
Ortaggi
- Asparago rosa di Mezzago
- Cipolla ramata di Milano
- Zucca gialla
- Lenticchie
- Verza
- Zucchino verde di Milano
- Rapa di Milano
- Patata di Uboldo
- Soncino
- Asparago di cantello
- Cavolo cappuccio detto anche Cavolo Milano
- Patata di Oreno
- Prezzemolo Brianzolo
- Cipolline dolci brianzole
Frutta
- Pesche di Nobile
- Marroni di Albavilla
- Noci e nocciole dei colli di Brianza
- Moroni del gelso
Salumi
- Salame Brianza
- Salame Milano
- Cacciatori
- Luganiga di Monza
- Verzin
- Prosciutto Crudo della Brianza
- Cotechino
- Filzetta
Vini
- Vino di Montevecchia
- Vino di Oreno
- Vino del lago di Pusiano
Razze autoctone
- Pecora Brianzola
- Maiale Milano (estinto)
- Gallina Brianzola
- Mucca Varzese
- Galline Mericanei della Brianza
- Tacchino Brianzolo
- Cappone Brianzolo
Specie ittiche dei laghi e dei fiumi briantei
- Pesce persico
- Luccio
- Lavarello
- Arborelle
- Gamberi del Lambro
Altri
- Lumache di Barni
- Olio extravergine di oliva Dop Laghi lombardi
Sulle opportunità del localismo vedi anche il localismo toscano di Esselunga
Sullo stato dell’agricoltura brianzola Vi invitiamo a scorrere questo articolo sotto del Corriere della Sera del 15 marzo 2014 che testimonia la sua vivacità
sempre del Corriere del 15 marzo:
Bibliografia
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Belfanti, C.M. (1995) L’eredità proto-industriale. Forme di proto industria rurale nell’Italia Settentrionale(secoli XVIII-XIX).
Beretta, R. (1972) Pagine di Storia Brinatine, Como, SAGSA.
Cafagna, L. (1983) Protoindustria o transizione in bilico? A proposito della prima onda dell’industrializzazione italiana, in “Quaderni storici”, n.54.
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Della Peruta, F. (1984) Il movimento contadino nell’Alto Milanese (1885-1889), Bologna, Il Mulino.
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Touring Club Italiano, Italia (2003) Lombardia, Dalle Alpi al Grande Fiume, Milano, le città, i centri minori, i laghi, i parchi naturali, Milano, Touring Editore Srl.
[1] Il testo corrisponde ai paragrafi 2.1 e 2.2 della tesi di Riccardo Migliavada, Brianza tra industria e futuro. Progetto di rivalorizzazione dell’agricoltura brianzola, anno accademico 2008-2009, Università degli Studi di Scienze Gastronomiche, relatore chiarissimo professor Paolo Corvo. L’adattamento e le eventuali note redazionali sono a cura di Eleonora Sàita [Nota del Redattore] mentre la conclusione è di Giuseppe Caprotti.
[2] C. Cantù, Guida per i monti della Brianza, 1837. Per un’ulteriore approfondimento sui confini della Brianza vedi anche “Un’amministrazione interna industriale perfetta”: il cotè privè” dei Caprotti (secoli XIX- XX), a cura di Eleonora Sàita, presente su questo sito.
[3] C. De Capitani D’Hoe, Memoria prima sull’agricoltura del Monte di Brianza, in «Annali dell’Agricoltura del Regno d’Italia», volume 4, fascicolo 11.
[4] La suddivisione territoriale in dipartimenti e cantoni venne introdotta da Napoleone nel 1797 e fu utilizzata sino al 1815.
[5] Il documento fa riferimento ad una Contessa, vedova del Milanese Azzone Grasso, ed oggi è conservato nella Biblioteca Nazionale di Francia.
[7] Karl Czoernig (1986) Agricoltura e condizioni di vita dei lavoratori agricoli lombardi, 1835-1839.
[8] De Capitani D’Hoe, C. (1809) Memoria prima sull’agricoltura del monte di Brianza, Annali dell’agricoltura del Regno d’Italia, vol. 4, fascicolo 11.
[11] Malattia epidemica del baco da seta che uccide l’insetto e lascia le larve bianche e friabili come calcina.
[12] Serpieri, A. (1910) Il contratto agrario e le condizioni contadine nell’Alto Milanese, Milano, Editore L’Ufficio Agrario, p. 107
[13] (2003) Editoriale, La Curt, Bernareggio, Amici della Storia della Brianza, numero zero, anno 2003, p.3
[14] Belfanti, C.M. (1995) L’eredità proto-industriale. Forme di proto industria rurale nell’Italia Settentrionale (secoli XVIII-XIX)
[15] Merzario, R. (1989) Il capitalismo nelle montagne. Strategie famigliari nella prima fase d’industrializzazione nel comasco, Bologna, Il Mulino.
[17] Malattia causata da un parassita che attacca le foglie o le radici della vite, succhiandone la linfa ed essiccandole [Nota del Redattore].
[18] Cafagna, L. (1983) Protoindustria o transizione in bilico? A proposito della prima onda dell’industrializzazione italiana, in “Quaderni storici”, n.54.
[19] La flaccidezza è una malattia causata da un micrococco che viene ingerito dall’insetto con le foglie di gelso, vedi J. D’Ercole, Metodo di allevamento di Bombyx mori, in Neptunalia, rivista di acquariofilia e terraiofilia, numero 1, pubblicato in data 20 marzo 2007, 4 pagine, <http://neptunalia.net/rivista>, p. 3. La diaspis fu provocata da un parassita che attaccava le piante di gelso, riduceva la produzione di foglia e, di conseguenza, il numero di bachi allevabili. La malattia, curabile solo con l’estirpazione delle piante, fu infine debellata solo alla vigilia della Prima guerra mondiale, vedi G. Federico, Una crisi annunciata: la gelsibachicoltura, in Studi sull’agricoltura italiana, a cura di P.P. D’Attorre e A. De Bernardi, Milano, 1994, pp. 343 – 372; p. 355 [Nota del Redattore].
[20] Della Peruta, F. (1984) Il movimento contadino nell’Alto Milanese (1885-1889), Bologna, Il Mulino.
[21] Serpieri, A. (1910) Il contratto agrario e le condizioni dei contadini nell’alto Milanese, Milano, Editore L’Ufficio Agrario.
[22] Società Umanitaria (1904) L’industria del mobile in Brianza e le condizioni dei lavoratori, Milano, Editore L’ufficio del Lavoro.
[24] La Produzione Lorda Vendibile è costituita dalla somma dei prodotti che vengono venduti nell’anno di riferimento dalle aziende agricole (prodotti delle colture erbacee, delle colture arboree e di eventuali prodotti della trasformazione), con l’esclusione dei prodotti reimpiegati in azienda (come i foraggi, la paglia, ecc.), moltiplicata per il rispettivo prezzo di mercato all’azienda.


