Redatto il 18 maggio, aggiornato il 2 ottobre 2024. Trovate un mio commento alla fine.

David Grossman: Israele è in un incubo. Chi saremo quando risorgeremo dalle ceneri? Possiamo solo immaginare l’entità della paura e dell’odio che ora verranno a galla

David Grossman è uno dei più grandi scrittori israeliani, ha perso un figlio ventenne, in Libano, nella guerra contro Hezbollah, nel 2006. E’ autore di ‘More Than I Love My Life’ e vincitore del Man Booker International Prize 2017 e dell’Israel Prize 2018 . Articolo tradotto da Alessandra Sgarbi

Circa 1.000 morti, più di 3.000 feriti, decine di persone prese in ostaggio. Ogni sopravvissuto è una storia miracolosa di intraprendenza e coraggio. Innumerevoli miracoli, innumerevoli atti di eroismo e sacrificio da parte di soldati e civili. Guardo le facce delle persone e vedo lo shock. Intorpidimento. I nostri cuori sono appesantiti da un peso costante. Più e più volte ci diciamo: è un incubo. Un incubo senza paragoni. Non ci sono parole per descriverlo. Non ci sono parole per contenerlo.

Vedo anche un profondo senso di tradimento. Il tradimento dei cittadini da parte del loro governo, del primo ministro e della sua coalizione distruttiva. Un tradimento di tutto ciò che abbiamo di prezioso come cittadini, e in particolare come cittadini di questo Stato. Un tradimento della sua idea formativa e vincolante. Del deposito più prezioso di tutti – la casa nazionale del popolo ebraico – che è stato consegnato ai suoi capi per la salvaguardia, e che avrebbero dovuto trattare con riverenza. Invece, cosa abbiamo visto? Che cosa ci siamo abituati a vedere, come se fosse inevitabile?

Quello che abbiamo visto è il totale abbandono dello Stato a favore di agende meschine e avide e di una politica cinica, ristretta e delirante. Quello che sta accadendo ora è il prezzo concreto che Israele sta pagando per essere stato sedotto per anni da una leadership corrotta che lo ha fatto precipitare di male in peggio; che ha eroso le sue istituzioni di diritto e giustizia, il suo esercito, il suo sistema educativo; che era disposto a metterlo in pericolo esistenziale per tenere il suo primo ministro fuori dal carcere. Vedo anche un profondo senso di tradimento. Il tradimento dei cittadini da parte del loro governo, del primo ministro e della sua coalizione distruttiva Basti pensare ora a quello con cui abbiamo collaborato per anni. Pensate a tutta l’energia, il pensiero e il denaro che abbiamo sprecato per guardare Netanyahu e la sua famiglia recitare i loro drammi in stile Ceaușescu. Pensate alle illusioni grottesche che producevano per i nostri occhi increduli.

Negli ultimi nove mesi, milioni di israeliani sono scesi in piazza ogni settimana per protestare contro il governo e l’uomo a capo. E’ stato un movimento di enorme significato, un tentativo di riportare Israele sulla retta via, all’idea nobile che sta alla base della sua esistenza: creare una casa per il popolo ebraico. E non una casa qualsiasi. Milioni di israeliani volevano costruire uno stato liberale, democratico, amante della pace, che rispettasse la fede di tutti i popoli. Ma invece di ascoltare ciò che il movimento di protesta aveva da offrire, Netanyahu ha scelto di screditarlo, di dipingerlo come traditore, di incitare contro di esso, di approfondire l’odio tra i suoi fattori. Eppure coglieva ogni occasione per dichiarare quanto fosse potente Israele, quanto fosse determinato e, soprattutto, quanto fosse ben preparato ad affrontare qualsiasi minaccia. Ditelo ai genitori impazziti dal dolore, al bambino gettato sul ciglio della strada. Ditelo agli ostaggi. Dillo alle persone che ti hanno votato. Ditelo alle 80 brecce nella recinzione di confine più avanzata del mondo.

Ma non fatevi ingannare, e non fatevi confondere: con tutta la furia contro Netanyahu, il suo popolo e le sue politiche, l’orrore di questi ultimi giorni non è stato causato da Israele. E’ stato effettuato da Hamas. L’occupazione è un crimine, ma sparare a centinaia di civili – bambini e genitori, anziani e malati a sangue freddo – è un crimine peggiore. Anche nella gerarchia del male c’è una “classifica”. C’è una scala di gravità che il buon senso e gli istinti naturali possono identificare. E quando vedi i campi di sterminio del sito del festival musicale, quando vedi i terroristi di Hamas in motocicletta che inseguono i giovani festaioli, alcuni dei quali stanno ancora ballando senza rendersi conto di cosa sta succedendo…

Non so se gli agenti di Hamas debbano essere chiamati “animali”, ma senza dubbio hanno perso la loro umanità.

Ci muoviamo in queste notti e in questi giorni come sonnambuli. Cercando di resistere alla tentazione di guardare le orribili clip e ascoltare le voci. Sentire la paura insinuarsi tra coloro che, per la prima volta in 50 anni – dalla guerra dello Yom Kippur – stanno sperimentando la terrificante prospettiva della sconfitta. Chi saremo quando risorgeremo dalle ceneri e rientreremo nelle nostre vite? Quando sentiamo visceralmente il dolore delle parole dello scrittore Haim Gouri, scritte durante la guerra arabo-israeliana del 1948, “Quanto sono numerosi quelli che non sono più con noi”. Chi saremo e che tipo di esseri umani saremo dopo aver visto quello che abbiamo visto? Da dove cominceremo dopo la distruzione e la perdita di tante cose in cui credevamo e di cui ci fidavamo? Prego che ci siano palestinesi in Cisgiordania che, nonostante il loro odio per Israele – il loro occupante – si distinguano da ciò che hanno fatto i loro compatrioti. Se posso azzardare un’ipotesi: Israele dopo la guerra sarà molto più di destra, militante e razzista. La guerra che gli è stata imposta avrà cementato gli stereotipi e i pregiudizi più estremi e odiosi che inquadrano – e continueranno a inquadrare in modo ancora più robusto – l’identità israeliana. E quell’identità d’ora in poi incarnerà anche il trauma dell’ottobre 2023, così come la polarizzazione, la frattura interna. E’ possibile che ciò che è stato perso – o sospeso a tempo indeterminato – il 7 ottobre sia stata la minuscola possibilità di un vero dialogo, di una vera accettazione da parte di ogni nazione dell’esistenza dell’altra? E cosa dicono ora coloro che brandivano l’assurda nozione di uno “stato binazionale”? Israele e Palestina, due nazioni distorte e corrotte da guerre senza fine, non possono nemmeno essere cugine l’una dell’altra – qualcuno crede ancora che possano essere gemelle siamesi? Dovranno passare molti anni senza guerra prima che l’accettazione e la guarigione possano essere prese in considerazione. Nel frattempo, possiamo solo immaginare l’entità della paura e dell’odio che ora saliranno in superficie. Spero, prego, che ci siano palestinesi in Cisgiordania che, nonostante il loro odio per Israele – il loro occupante – si distinguano, sia con le azioni che con le parole, da ciò che hanno fatto i loro compatrioti. Come israeliano, non ho il diritto di predicare loro o di dire loro cosa fare. Ma come essere umano, ho il diritto – e l’obbligo – di esigere da loro una condotta umana e morale.

Verso la fine del mese scorso, i leader di Stati Uniti, Israele e Arabia Saudita hanno parlato con entusiasmo di un accordo di pace tra Israele e i sauditi, che si baserebbe sugli accordi di normalizzazione di Israele con il Marocco e gli Emirati Arabi Uniti. I palestinesi sono a malapena presenti in questi accordi. Netanyahu, arrogante e sicuro di sé, è riuscito – nelle sue parole – a recidere il legame tra il problema palestinese e le relazioni di Israele con gli Stati arabi. L’accordo israelo-saudita non è estraneo agli eventi del “sabato nero” tra Gaza e Israele. La pace che avrebbe creato è una pace dei ricchi. E’ un tentativo di saltare il cuore del conflitto.

Questi ultimi giorni hanno dimostrato che è impossibile iniziare a risolvere la tragedia mediorientale senza offrire una soluzione che allevi le sofferenze dei palestinesi. Siamo capaci di scrollarci di dosso le formule ormai logore e capire che ciò che è accaduto qui è troppo immenso e troppo terribile per essere visto attraverso paradigmi stantii? Anche la condotta di Israele e i suoi crimini nei territori occupati per 56 anni non possono giustificare o ammorbidire ciò che è stato messo a nudo: la profondità dell’odio verso Israele, la dolorosa consapevolezza che noi israeliani dovremo sempre vivere qui in una maggiore allerta e in una costante preparazione alla guerra. In uno sforzo incessante per essere sia Atene che Sparta allo stesso tempo. E un dubbio fondamentale che potremmo mai essere in grado di condurre una vita normale, libera, libera da minacce e ansie. Una vita stabile e sicura. Una vita che è casa.

Purtroppo forse Israele era “casa” per gli israeliani, un pò meno per i palestinesi.

Sotto il muro in Cisgiordania, fotografato nel 2019 : si tratta di “un sistema di barriere fisiche costruito da Israele in Cisgiordania a partire dalla primavera del 2002. Si estende su un controverso tracciato di 730 km ridisegnato più volte a causa di pressioni internazionali e consiste per tutta la sua lunghezza in un’alternanza di muro e reticolato con porte elettroniche”.

Ne ho sentito parlare per la prima volta da Daniel Barenboim al Teatro Franco Parenti a Milano, anni fa.

Barenboim aveva istituito un’orchestra mista di israeliani e palestinesi.

Conclusione:

forse l’unica possibilità per una pace duratura in Medio Oriente è, come dice Omer  Mei Wellber su Repubblica del 19 maggio 2024  “un futuro senza Hamas e senza Netanyahu”.

Sinceramente non credo che questa escalation militare possa portare risultati positivi, anzi.

Penso che sarà assolutamente controproducente.

Leggi in merito: I tragici errori di Israele, per amore di Israele o il punto di vista di Etgar Keret sotto.

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