Nella mia storia personale nella GD, ho sempre visto crescere il numero di articoli delle marche, per linee interne o per acquisizioni.
Ciò era vero anche negli USA, quando lavoravo per la Dominick’s…
Il lancio di troppi articoli nuovi era all’ordine del giorno già negli anni ’90, vedi articolo del New York Times sotto, intitolato
“i nuovi prodotti ostruiscono le drogherie” (il verbo to clog – ostruire- viene di solito usato per le arterie, si tratta di un gioco di parole), nel quale si faceva presente – tra le tante cose – che l’anno precedente erano stati lanciati dall’industria di largo consumo americana ben 12’000 prodotti.
Uno sproposito.
l’articolo proviene dal mio report sui miei due anni alla Dominick’s
I distributori affermavano che il 90% dei prodotti erano un fallimento e volevano chiedere all’industria di pagare 1’200 $ per ogni referenza che andava eliminata.
Negli USA (1) , come in Italia, esistevano delle fee d’ingresso per i prodotti, già incluse e calcolate nel listino del fornitore (2).
E molti buyer, non tenendo conto di questo fattore e del possibile danno a valle (articolo che non va = costo ) si facevano ingolosire da queste fee e inserivano una marea di prodotti inutili…
Quante volte ho sentito dai “miei buyer” la frase: ” voglio inserire l’articolo X perchè ci danno i soldi Y per l’inserimento!..”, senza magari calcolare che si trattava di una extension line inutile ( gli scaffali della GD sono pieni di doppioni = articoli uguali ma di marche diverse) e che i soldi Y, oltre a non coprire i futuri cali di marginalità del prodotto appena inserito (3), erano inclusi nei listini .
In Italia ho perfino visto fornitori offrirci fee sostanziose per mantenere i prodotti che non andavano sugli scaffali.
(1) alla Dominick’s si chiavano slotting fee, dagli slot dei magazzini
(2) per capirne di più sulla gestione dei listini v. Esselunga contro Coca- Cola
(3) di solito il margine lordo – di primo livello (per le spiegazioni in merito v. Esselunga contro Coca- Cola) – dei prodotti nuovi, deciso dai fornitori ,era intorno al 30% ma scendeva dopo l’inserimento nei più grandi gruppi della GD perchè la guerra dei prezzi colpiva tutti i settori, e non solo i prodotti più venduti delle “grandi marche” come Ferrero, Barilla o Procter and Gamble, tanto per fare qualche esempio.
Ho assistito personalmente a guerre dei prezzi su settori che nulla avevano a che fare con la spesa settimanale ricorrente , come le lampadine alogene o le minestre liofilizzate in busta…
Anche se i lanci di prodotti, con la crisi, sono diminuiti notevolmente l’articolo del N.Y. Times sopra è ancora attuale, infatti Luigi Rubinelli, presentando un sondaggio Centromarca- Episteme, a febbraio 2014, faceva presente che il 60% dei clienti intervistati voleva ridurre le marche dell’industria di marca presenti sugli scaffali della GD:
cito:
“sembrerebbe quasi un plebiscito:
a questo risultato ha contribuito la scarsa innovazione negli anni scorsi,
l’ampio uso della sgrammatura, e troppe extension line effettuate senza un reale bisogno da parte del consumatore”
Unilever , proprio per eliminare i costi inutili, ha invece deciso da tempo di “nuotare controcorrente e di razionalizzare pesantemente il proprio assortimento …”:
dal 2000 a oggi le marche della multinazionale anglo- olandese sono passate da 2000 a 400.
Unilever ha intenzione di focalizzare la propria attenzione su marchi, come Magnum e Sunsilk, che generano più di 1 miliardo di € di vendite.
Dieci anni fa Unilever era la seconda azienda per fatturato nel mondo del largo consumo, dietro a Nestlè. Oggi è terza dietro a Nestlè e a Procter and Gamble.
Il fatturato è sceso del 3% nel 2013, a 49,8 miliardi di € ma il MOL o Ebitda è cresciuto dal 13,8% al 14,1% del fatturato e l’utile si è alzato dell’11% (a 4,84 miliardi di €).
La crescita è sorretta dalla crescita dei settori dell’igiene e bellezza e la pulizia della casa, soprattutto nei paesi emergenti (che però stanno rallentando la propria corsa..), mentre l’alimentare ha vendite stabili.
Sembra che Nestlè, che non è riuscita a crescere come voleva nel 2013, stia valutando di seguire le sue orme.
Il modello Unilever sembra virtuoso ma ha un neo:
come fare a centrare l’obiettivo di fatturato di 80 miliardi di € stabilito dal ceo Paul Polman per il 2020?…
La domanda non è banale perchè , come si vede dalla chart Nielsen qui sotto, le aziende del largo consumo, almeno in Italia, riescono a crescere solo con gli articoli nuovi
nel grocery (drogheria) gli articoli, nel 2013, sono cresciuti del 15,5% con una crescita di fatturato del 4,4%. Le referenze vecchie sono invece diminuite del 13,2%.
La differenza è pari a +2,3% in termine di referenze e +4,1% e in termini di fatturato: ciò significa sostanzialmente che la crescita del mercato è derivata solo dagli articoli nuovi…
Nulla esclude, per le 200 marche di Unilever, delle estensioni di articoli in seno alle marche forti come Algida o Sunsilk.
29 gennaio 2014- aggiornato il 24 febbraio 2014
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