La triste e drammatica realtà relativa a uno degli ultimi Paesi a possedere estese aree vergini è scritta nero su bianco in uno studio condotto dai ricercatori dell’Università del Michigan, che hanno analizzato le foto satellitari ad alta risoluzione relative al periodo compreso tra il 2009 e il 2019 di un’area di circa 54mila km2 suddivisa tra tre dipartimenti (Alta Verapaz, Izabal e una parte del Petén), responsabili del 75% della produzione di olio di palma e nei quali la deforestazione è evidente. In essi hanno verificato la situazione di 119 piantagioni aderenti e 82 non aderenti ai disciplinari di sostenibilità del consorzio internazionale più famoso e influente, la Tavola rotonda sull’olio di palma sostenibile (Rspo), che prevedono non solo di non aumentare la deforestazione, ma addirittura di ripristinare parzialmente la biodiversità e le foreste.
I numeri, riportati sul Journal of Environmental Management, non lasciano dubbi: negli ultimi dieci anni le palme da olio hanno conquistato una superficie pari a oltre 87mila ettari, con il 28% delle piantagioni direttamente responsabili di deforestazione. Più del 60% di esse ha invaso sette zone definite Key Biodiversity Areas (KBA, aree chiave per la biodiversità), che dovrebbero essere lasciate intonse, e 23 aree protette. Inoltre, le piantagioni certificate Rspo, che rappresentano ben il 63% del totale delle zone coltivate censite, non hanno in alcun modo e in nessuna area aiutato la rigenerazione della foresta. Al contrario, nel decennio analizzato, il 9% delle piantagioni Rspo ha contribuito alla perdita di ampie aree di foresta e lo stesso ha fatto il 25% delle altre.
Analizzando i dati del commercio, poi, gli autori hanno scoperto che la deforestazione è collegata alla catena di approvvigionamento dell’olio di palma di tre multinazionali: Pepsico, Mondelēz International e Grupo Bimbo. Il Guatemala si avvia rapidamente a diventare il terzo produttore al mondo, dopo Indonesia e Malesia, e sta via via sostituendo le forniture per il Nordamerica provenienti dall’Asia.
È del tutto evidente che la certificazione Rspo, così com’è formulata oggi, non funziona e va riformata (nella migliore delle ipotesi), anche perché ciò che succede in Guatemala probabilmente accade anche in tutte altre zone del mondo minacciate dalle monocolture di palma da olio. Il bollino di ‘sostenibilità’, scrivono gli autori, è del tutto ingiustificato. Per cercare di fermare la folle corsa alla distruzione delle foreste, si dovrebbero modificare radicalmente le regole e le prassi delle certificazioni, assicurando che vi siano severi controlli. Inoltre, bisognerebbe tracciare tutto il percorso dell’olio, per avere sempre chiara la destinazione finale e costringere le aziende – soprattutto i colossi dell’agroalimentare come quelli coinvolti in Guatemala – ad assumersi le proprie responsabilità. Infine, bisognerebbe spingere i governi come quello del Guatemala a fare molto di più per proteggere un patrimonio di inestimabile valore, da cui dipende la sopravvivenza, tra gli altri, degli stessi guatemaltechi.
Una piantagione di olio di palma in Guatemala



