Redatto il 3 Dicembre 2013, aggiornato il 4 agosto 2025
Premessa : mai come oggi il Made in Italy rischia di trovarsi sotto scacco. Le minacce vengono da due fronti aperti da Donald Trump :
1) i dazi
2) la volontà del governo americano di esportare in Italia il proprio cibo, rispolverando il TTIP, un accordo che sembrava morto e sepolto, che vedrebbe l’Italia esposta a standard inferiori a quelli imposti dall’Unione Europea (es: Ogm, pesticidi e carne agli ormoni).
Ne parla Milena Gabbanelli sul Corriere del 14 aprile 2025 Trovate il suo pezzo in fondo a questo articolo.
In questo contesto va saputo che siamo deboli : esiste un falso mito del cibo “100% italiano” , il nostro Paese non è autosufficiente e importiamo grandi quantità di grano, legumi, latte e carni bovine.
Di
In fondo trovate le mie considerazioni attuali.
Trovate qui il link dell’articolo de Il Fatto Alimentare.
p.s.: Il pezzo è del 2013 ma le “logiche” sono sempre le stesse, lo potete vedere più avanti, guardando la bilancia commerciale del settore alimentare nel 2018.

L’Italia nel settore alimentare non è autosufficiente e deve importare grandi quantità di materie prime dall’estero. Una situazione ben conosciuta dagli addetti ai lavori, ma meno nota al grande pubblico, che vorrebbe sempre comprare cibo “made in Italy”. Questa mancanza si traduce nella necessità di importare ingredienti da trasformare in prodotti finiti destinati sia al consumo interno sia all’esportazione. Un rapporto firmato da Coop e pubblicato sulla rivista “Consumatori” cerca di fare chiarezza.
Il dossier sfata il mito del prodotto preparato con materie prime al 100% italiane. Il nostro Paese non riesce a produrre tutte le risorse di cui ha bisogno sia a causa di politiche restrittive dell’Unione Europea (*), sia per la diminuzione dei terreni destinati all’agricoltura. Secondo dati raccolti da Coop, dal 1970 a oggi gli ettari di superficie coltivabile sono scesi da 18 a 13 milioni, mentre la popolazione è cresciuta del 10%. L’importazione è indispensabile per produrre molti altri alimenti tipici del made in Italy.
L’esempio della pasta è istruttivo: il grano duro italiano copre solo il 65 % del fabbisogno, occorre importare frumento da Paesi come Canada, Stati Uniti, Sudamerica. Anche per il grano tenero vale la stessa cosa poiché il prodotto interno copre solo il 38% di ciò che richiede il settore, con importazioni da Canada, Francia, ma anche Australia, Messico e Turchia. Non cambia la situazione per altre categorie merceologiche: le carni bovine italiane rappresentano il 76% dei consumi e per il latte si scende addirittura al 44%, anche per lo zucchero e il pesce fresco dobbiamo rivolgerci ad altri mercati poiché riusciamo a coprire solo il 24% e il 40% del consumo interno. Lo zucchero viene soprattutto dal Brasile, mentre il pesce da Paesi Bassi, Thailandia, Spagna, Grecia e Francia, oltre a Danimarca ed Ecuador.
Anche la maggior parte dei legumi non sono italiani, a causa di drastiche riduzioni delle coltivazioni a partire dagli anni ’50. Adesso le importazioni provengono principalmente da Stati Uniti, Canada, Messico, Argentina, ma anche da Medio Oriente e Cina. Quest’ultimo Paese è diventato il primo fornitore italiano a seguito della siccità che ha colpito l’Argentina.
(*) ricordo che siamo nel 2013.

La produzione nazionale di uova, riso, frutta, pollame e vino è in grado di soddisfare il fabbisogno interno
Dobbiamo ricordare poi l’annosa questione del pomodoro. Premesso che tutto il pomodoro venduto sugli scaffali è italiano, dalla Cina importiamo triplo concentrato di pomodoro, che viene lavorato e esportato in altri Paesi.
Siamo invece autosufficienti per quanto riguarda riso, vino, frutta fresca, pomodoro, uova e pollo. Solo in questi casi abbiamo la quasi totale certezza di comprare un prodotto made in Italy al 100%.
La situazione per il cibo trasformato è opposta: produciamo il 220% della pasta rispetto al fabbisogno interno, che viene esportata, 4 volte la quantità di spumante consumato, mentre per i formaggi questa percentuale è pari al 134% ( vedi tabella Coop sotto). L’importazione della materia prima diventa nel caso della pasta indispensabile per poter produrre quantità in grado di soddisfare le richieste del mercato.

Alcuni esempi rischiano anche di sorprendere: alcuni prodotti correlati al territorio come quelli IGP (Indicazione Geografica Protetta), sono in realtà il risultato eccellente della lavorazione di materie prime non italiane. La bresaola proveniente dalla Valtellina viene preparata con carne brasiliana. La Valtellina offre un ambiente ottimo per la stagionatura e la lavorazione del prodotto, ma non dispone di allevamenti in grado di fornire l’ingrediente di base (17 mila tonnellate l’anno di cui 11 mila di prodotti Igp)…
… La provenienza di materie prime dall’estero non è sinonimo necessario di scarsa qualità: la sicurezza dipende dai controlli e dal rispetto delle regole. È più importante poter potenziare gli strumenti che garantiscono la qualità di un prodotto o di un ingrediente, a prescindere dalla sua provenienza geografica, piuttosto che ricercare l’italianità a tutti i costi, anche quando non è possibile.
Tabella: Coop. Foto: photos.com
Come si legge : siamo, ad esempio, grandi esportatori di spumanti e grandi importatori di pesce.


Dal 2013 in poi le esportazioni di cibo sono aumentate ma molti settori rimangono deficitari, vedi sotto.
Nota bene che se ittico, carne, colture industriali (*), olio e latte incidono negativamente sulla bilancia commerciale (dobbiamo importarli) , i “cereali” in positivo non devono trarre in inganno : si tratta di pasta, trasformata da grano prevalentemente straniero (Usa, Canada, etc) importato in Italia.
Poi – una volta lavorato il grano – la pasta viene esportata all’estero.
In Italia l’autosufficienza di grano duro – che è quello che serve per fare la pasta – nel 2013 era del 65% e, nel 2024, è scesa al 60%.
(*) per la colture industriali sono previsti cinque settori: impieghi industriali di colture cerealicole; impieghi industriali di colture oleaginose; impieghi industriali di colture proteaginose; filiere dei prodotti della silvicoltura e del legname; biomassa per […]l’energia e impieghi non alimentari.

Non tutto il grano duro viene usato per fare pasta (vedi sotto).
E, alla fine, 1 piatto di pasta su 5 (il 20%) è fatto – mediamente (*) – di grano italiano.
Anche se, dopo Barilla, tutti i big del settore puntano a produrre pasta 100% italiana.
Per non incappare in “brutte sorprese” consigliamo, come sempre, di leggere attentamente le etichette, cartelli etc. e di agire di conseguenza.
(*) molto spesso si usa grano “mescolato” (un blend di varie provenienze).
Per capire la scelta di Barilla sul grano 100% italiano leggi : Barilla : solo grano duro italiano al 100%? Si tratta di una scelta “obbligata” (perchè Barilla perdeva fatturato e quote di mercato: -7,2% e -2,6% , rispettivamente ad anno terminante ad agosto 2019).
“Il Fatto Alimentare” nel 2024 ha ribadito : secondo il Rapporto 2024 sull’agroalimentare italiano dell’Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare (ISMEA), il comparto italiano è caratterizzato da un’agricoltura strutturalmente importatrice che dipende dall’estero per l’approvvigionamento di beni agricoli che l’industria alimentare trasforma in prodotti tipici italiani.
I principali prodotti importati necessari per le filiere del made in Italy agroalimentare sono: il caffè non torrefatto (100%), l’olio di palma (100%), i panelli di soia (83,3%), le fave di soia (68%), il frumento di grano tenero (64%), i bovini vivi (57%), il mais (54%), l’olio extravergine d’oliva (48%), il frumento di grano duro (44%), il prosciutto e le spalle di suini freschi (37%).
E la nostra agricoltura, purtroppo, sta retrocedendo.
Lo riconferma il Fatto Alimentare, nel 2025: le importazioni di grano tenero sono al 70% ..” La produzione italiana di grano tenero e grano duro non è sufficiente per garantire il fabbisogno industriale. La stessa cosa si ripropone per l’olio extravergine di oliva che ormai viene importato per oltre il 60% e registra una produzione nazionale in costante diminuzione“.
Sotto trovate l’articolo di Milena Gabbanelli che parla, giustamente, di carne agli ormoni, pesticidi e ogm ( tanto cari a Coldiretti…).

Per chi “pensasse male” smentisco che i tratti si tratta di “dietrologia politica” della Gabbanelli contro gli USA: di fronte a forti incrementi di prezzo – ad esempio come avverrà con il pecorino romano, formaggio molto amato negli USA – è molto probabile che il consumatore medio americano acquisterà prodotti alternativi locali (“italian sounding”).
Sotto trovate un estratto di un’intervista del “falco dei dazi” di Trump, Peter Navarro al Financial Times, dove parla del risentimento degli Stati Uniti per il rifiuto opposto dalla UE all’import di carne e ogm “Made in USA”.
Sulla tassazione delle aziende big tech – tra le quali Amazon – puoi leggere questo articolo.



