Redatto il 25 maggio, aggiornato il 16 dicembre 2024
La vicenda Benetton, con il suo triste epilogo, mi ricorda tanto quelle della Manifattura tessile che abbiamo gestito, come famiglia, dalla prima rivoluzione industriale in poi.
Mio padre era affezionato alla vecchia “ditta” che aveva fatto le fortune della nostra famiglia e non voleva saperne di mollarla. Di fronte a possibili offerte si offendeva – è successo con Fabio Inghirami (pagina numero 301 di “Le ossa dei Caprotti”).
Ma il tessile, in Italia, sembrava non avere un futuro e, infatti, i fratelli Albini, che avevano rilevato la gestione dell’azienda nel 2000, la chiusero nel 2009, rendendo i muri a mio padre.
Lui li ha poi lasciati, nel 2016, tramite la holding che controlla Esselunga, alle sue due eredi universali: Giuliana e Marina Caprotti.
Io, qualche anno fa, sono tornato a vivere vicino alla vecchia fabbrica, ad Albiate, e non posso non ripensare all’incaponimento di mio padre che, per anni, pur non abitando più lì e occupandosi di tutt’altro, si è intestardito a voler trovare “dei manager” per questa realtà, per la quale per fortuna non abbiamo perso quanto i Benetton (886 milioni) ma abbiamo speso tantissime energie inutili.
Io seguivo spesso mio padre nelle su visite alla Manifattura, avevo conosciuto parte del personale, i manager che si erano succeduti alla guida dell’azienda. Nel non food di Esselunga avevo perfino cercato di “dare una mano” alla Manifattura, vendendo delle camicie nelle promozioni “oltre la tavola” con un discreto successo.
Ma la verità era che, già dopo la crisi petrolifera degli anni ’70, anche mio padre diceva che il tessile, in Italia, non aveva futuro. Soprattutto se non producevi dei prodotti di nicchia e di altissima qualità. E non era il nostro caso: i prodotti della manifattura erano assolutamente “popolari” (mainstream, ad esempio aveva una forte produzione di tessuto per jeans, che facevano “tutti”).
La lezione finale di tutta questa vicenda, per me, è che gli imprenditori devono capire quando saper mollare e voltare pagina.
Ciò è difficilissimo a causa dei legami affettivi e storici con il marchio, gli stabilimenti, le persone che sono alle origini del proprio successo ma è così.
Ricordo anche che il mio buon amico Juan Roig di Mercadona mi diceva “nessuno imprenditore è Re Mida”.
I Benetton non avevano nessuna possibilità di rilanciare il loro marchio. Come non l’abbiamo avuta noi, con il cotonificio di famiglia.
Il mondo del tessile oggi, è in gran parte in mano all’e-commerce e alla fast fashion di Temu, Shein, Zara, H&M e Primark.
Oltre ai modelli organizzativi diversi, la barriera all’entrata – costituita da investimenti nei negozi e in tecnologia – per una piccola impresa, come era già Benetton sei anni fa (venti volte più piccola di Inditex – Zara), era troppo alta.
Lo era all’epoca, figuriamoci ora che Shein, con un fatturato pari a 41,7 miliardi di €, ha superato Zara.

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Per quanto riguarda la rete dei negozi italiani, si procederà con la chiusura (si parla anche di 500 punti vendita) di quelli non profittevoli, molti dei quali in franchising. Nel contempo, è partito un piano di rientro di crediti scaduti per 38 milioni, per i quali si procederà non con semplici avvertimenti, ma con decreti ingiuntivi. Si tratterebbe proprio di crediti per ordini non pagati dagli affiliati.
E’ stato avviato anche uno screening sui negozi esteri.
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