Questo pezzo è il seguito di : Se il Made in Italy passa dalla distribuzione.
Per fare il punto sulla situazione bisogna tornare, indietro di qualche mese, al dicembre del 2013.
In quel mese Coldiretti aveva protestato, installando un recinto di maiali davanti a Montecitorio
Coldiretti protestava per la crisi suina e per i prosciutti contrassegnati con il tricolore ma provenienti, in realtà, dall’estero.
E Federalimentare (aderente a Confindustria) in quell’occasione aveva dichiarato che:
Ma il fatto che il cibo che mangiamo sia fatto al 72% da ingredienti italiani non rassicura i consumatori che dovrebbero essere in grado di avere – chiaramente – la tracciabilità totale, di tutti i prodotti acquistati.
Comunque, tra le righe dell’articolo, si capiva che Confidustria frenava sull’etichettatura chiara dell’alimentare per una questione di costi che i suoi aderenti si sarebbero dovuti sobbarcare.
E il giorno stesso veniva stilata questa analisi (sopra) che attaccava Coldiretti e rimandava alle leggi UE già esistenti.
Ma Lello Naso evitava di porsi la domanda : “E se le leggi non fossero più adatte alle esigenze attuali, soprattutto alle richieste dei consumatori, che vorrebbero veder chiaro su cosa mangiano?”
Lisa Ferrarini (Confindustria) il 29 gennaio 2014 , riprendendo l’argomento , dichiarava che “Purtroppo il governo italiano nella UE non conta niente”…
Come dire, tutti uniti in un coro confindustriale : “se non contiamo nulla in Europa e facciamo delle proposte (quali?) che non vengono accolte cosa ci possiamo fare?”.
Tra l’altro, nella stessa pagina, il quotidiano di viale dell’Astronomia metteva in evidenza i danni della contraffazione, calcolati dal Censis.
L’impressione era che ci si lamentasse senza decidere che strada prendere realmente per lottare contro la contraffazione nel comparto alimentare

Ad aprile, a seguito dell’ennesima “bomba” sganciata dall’audace e coraggioso Roberto Moncalvo, presidenti di Coldiretti , Riccardo Felicetti, presidente Aidepi replicava in modo scontato e banale , come se qualcuno avesse mai pensato di bloccare le importazioni del grano o del caffè dall’estero!…
e, facendo di nuovo riferimento all’Europa (usata come scudo e parafulmine), perdeva l’occasione di chiarire il percorso di un eventuale “Made in“, in Europa, per il settore alimentare
inoltre, se andiamo un pò più a fondo, vediamo che le proporzioni dell importazioni di grano sono più alte di quelle dichiarate da Felicetti
Il deficit per grano, semi oleosi e farine proteiche è del 46% (e non del 30% o del 40% , come dichiarava Felicetti…). E rimane tale se si considerano solo grano, mais e orzo (fonte: Associazione Nazionale Cerealisti).
E’come se l’associazione dei pastai si vergognasse di queste importazioni e volesse minimizzarle.
Comunque ,il 16 aprile, a Strasburgo, veniva approvata la legislazione sul “Made in”.
Sembrava fatta, leggendo un’intera pagina trionfalistica sul quotidiano confindustriale..
ma purtroppo, il giorno seguente, si scopriva che trattavasi solo del NON alimentare!
la lotta ai falsi continuava a suscitare dibattiti e dichiarazioni, anche durante e dopo il Cibus (v. sotto il titolo de Il Sole del 15 maggio 2014)
ma di quali falsi si stava parlando?
Si trattava solo di borsette e orologi? Oppure anche di biscotti , olio e vino?
C’è anche chi, fiutando l’aria, metteva la contraffazione tra i temi elettorali della propria campagna elettorale
Questo articolo sotto usciva in contemporanea con il messaggio elettorale di Mariani e confermava il suo “naso” per una situazione difficile, che lede produttori e consumatori
e che rende inquieti questi ultimi
i quali, ben rappresentati da Altroconsumo di aprile 2014 dicevano una verità sacrosanta: i consumatori vogliono sapere il luogo d’origine delle materie prime
mentre la Distribuzione dava ai consumatori delle risposte già viste :
le bandierine tricolori (o anche europee, come quelle sulla pubblicità della Unes sopra) sui prodotti andavano bene nel 1999, oggi – da sole – non bastano più,
Quello che segue è un dejà vu, ormai datato.
Posso dirlo tranquillamente avendo impostato personalmente il “prodotto in Italia”, 15 anni fà, con Esselunga Bio.
Lunica novità del settore è stata portata recentemente da Coop (sotto un particolare di un volantino della Coop di consumo di Albiate e di Triuggio), che però deve rendere meno farraginoso il sistema di tracciabilità delle materie prime
L‘Industria, come abbiamo visto sopra con Felicetti, Ferrua di Federalimentare o con la Ferrarini, non ha- ad oggi – chiari i suoi obiettivi : sembra in bilico tra il far risparmiare i propri aderenti o lottare contro la contraffazione, nonostante i continui richiami di Coldiretti…
Paolo Barilla, che rispetto e stimo molto dichiarava qualche giorno fà : “l’origine delle materie prime non necessariamente qualifica la bontà del prodotto”,
infatti con l’etichettatura con l’origine delle materie prime non si parlerebbe di qualità ma si vorrebbe dare trasparenza e chiarezza ai consumatori.
E la filiera è una bella cosa – ve lo dice qualcuno che è venuto su a “pane e filiera” (es.: Naturama l’ho costruita io con i miei collaboratori) – ma cosa vuol dire “la filiera ecosostenibile” di Gran Moravia?
Ho paura che le filiere, da comunicare e spiegare, siano più costose dell’etichettatura trasparente!
E alla fine le pressioni politiche di Coldiretti sembrano poter smuovere le acque della politica…
Nel frattempo l’etichettatura e il marketing delle confezioni si muove in una sorta di di Far West, dove ognuno fa un pò quel che vuole.
In una sorta di schizofrenia, Ferrero promuove il Brioss con le albicocche italiane…
ma sulla Nutella – in regola con la legge… – non mette la provenienza degli ingredienti
e – cosa più grave (sempre lecita, ovviamente) – non indica quale tipo di olio vegetale utilizzi
Rigoni dichiara che l’olio che usa è di girasole
mentre Novi usa olio di nocciola…
e con il 45% di nocciole presenti (in parte italiane ma non solo e non è dato di sapere la provenienza delle “altre” nocciole e le proporzioni tra i vari tipi…) non dice qual’è la % dell’olio di nocciole (e di cacao)
Questi, evidentemente, sono solo dei piccoli esempi.
Anche nella GD non tutto è chiaro, come si vede dal volantino della catena Iper che segue
Il pecorino romano è un “prodotto italiano” mentre il prosciutto nazionale e la provola calabrese non lo sono?
Queste differenze dovrebbero spiegarcele…
In conclusione si può affermare che il semestre di presidenza italiana del Consiglio della UE (che “coordina le politiche economiche generali dei paesi membri” ) inizia il 1° di luglio e che questi prossimi sei mesi potrebbe essere un’occasione per capire :
1) che non si può lottare contro la contraffazione e , nello stesso tempo, risparmiare sull’etichettatura.
2) che il made in Italy vero, come quello della Voiello (v. sopra . Il marchio – appena rilanciato in grande stile – appartiene alla Barilla), rischia di essere svilito da questa confusione generale delle indicazioni in etichetta.
E’ così anche per le albicocche italiane della Ferrero: la provenienza delle materie prime non deve essere un optional, che viene rispolverato solo quando fa comodo al produttore!
3) che bisogna guardare avanti e darsi regole più stringenti, che difendano veramente il Made in Italy alimentare, nella massima trasparenza verso i consumatori per evitare , d’ora in poi, etichettature incomprensibili per i consumatori come questa sotto…
IT-BIO-007: cosa vuol dire?
AGRICOLTURA NON UE: è impossibile capire da dove provenga il prodotto, regolarmente comprato a Milano, meno di un mese fa!
Ed è giusto ribadire – en passant – che i prodotti agricoli extra UE sono potenzialmente più pericolosi di quelli provenienti dall’Unione Europea (v. articolo di seguito)
E quindi, a maggior ragione,secondo me, bisognerebbe imitare la Coop svizzera (di seguito trovate l’etichetta del cioccolato a marchio della catena) che indica chiaramente gli ingredienti di ogni prodotto
Non per demonizzare gli ingredienti extra UE ma semplicemente per poterli consumare consapevolmente.
Il sistema costerebbe tanto, sicuramente ma quali sarebbero i rischi, oltre ai costi, della contraffazione?
Per essere ancora più chiari :
quanto può ancora crescere ancora il comparto dei prodotti italian sounding se non si adottano provvedimenti chiari , nel paese del Made in Italy per antonomasia e cioè in Italia?
Gli ingredienti potrebbero tranquillamente essere accompagnati da un logo che faccia capire che il manufatto è prodotto in Italia
è il principio dei prodotti IGP, ma con spiegazione chiara e tanto di tricolore
Quale potrebbe essere il danno per un marchio afferamato come Nutella (v. Il Sole 24 ore 2014 sotto), nel dire che il prodotto è prodotto in Italia con – ad esempio – delle nocciole turche?
Secondo me assolutamente nessuno :
i clienti della Coop svizzera non si aspettano ingredienti svizzeri per il coccolato a marchio Coop che considerano fatto nella Confederazione Elvetica.
mentre molti svizzeri, i cui rifornimenti arrivano probabilmente dall’affascinante impianto piemontese di Pino Torinese, che ho visitato (*) tempo addietro,
sono convinti che la Nutella che mangiano sia fatta in Ticino o a Berna, da un’azienda svizzera.
Anche per questa ragione sono convinto che gli industriali italiani debbano osare un pochino di più.
(*) dove mi fecero vedere la linea dei Rocher ma non quella della Nutella, per paura che carpissi qualche segreto
Il seguito in:Il Made in Italy può diventare un Marchio?
p.s.: Agricoltura, Industria e GD si conoscono e si parlano…
speriamo trovino una linea comune
Condividi questo articolo sui Social Network:

