“(…) quando vado a Le Rosey, devo lasciare a casa Teo, il mio mastino napoletano. All’inizio papà mi dice che il cane lo consola e talvolta lo porta con sé, a passeggiare nel parco del Ticino e a inseguire le anatre: ‘Teo nuota benissimo’ mi racconta orgoglioso. In seguito, quando nascerà Marina, Bernardo e Giuliana gli vieteranno di salire nel nostro appartamento, perché potrebbe “contagiare la bambina”: di cosa, francamente non so. Teo morirà di tumore e di solitudine, cosa che non mancherò di rinfacciare a papà e a Giuliana.” (p. 103).
Come per tutti i bambini nati e cresciuti a contatto con la campagna, specialmente poi se hanno un padre e uno zio cacciatori, i cani sono sempre stati una presenza continua e fondamentale. Di quand’ero bambino ricordo bene l’ammirazione per i grandi danesi, la tenerezza per un cucciolo di pointer (p. 77), la sensazione della morbidezza di Twidy, il cockerino color miele della mamma, che i cani li amava quanto me. Teo, però, rimane il cane della mia giovinezza, e la sua perdita una cicatrice non dimenticata.
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