Longform 26 Luglio 2021
MONDO
La “Grande diga della rinascita etiopica” lungo il Nilo è al centro di un conflitto che promette di sconvolgere il già precario equilibrio del Corno d’Africa
La guerra dell’acqua
a cura di Carlo Bonini (coordinamento editoriale) e Pietro Del Re Coordinamento multimediale di Laura Pertici Produzione
ASSUAN (EGITTO)
Sono soprattutto gli anziani a temere per la prossima “guerra dell’acqua” perché sanno che coinvolgerà tutti. Anche il loro piccolo e malconcio borgo agricolo, Korosko, a due ore di macchina a nord di Assuan. La temono non soltanto per l’aggravarsi di una siccità che già funesta la regione, ma anche perché per il fronte saranno costretti a partire i giovani del villaggio e perché saranno proprio loro, figli e nipoti di poverissimi contadini, i primi a finire sotto il fuoco nemico. «Quando le armi taceranno, chi sarà sopravvissuto alle pallottole etiopi dovrà emigrare verso l’Europa, e tutto ciò per colpa della mostruosa diga che Addis Abeba sta costruendo sul Nilo, più di duemila chilometri a sud da qui», dice Ahmed Shafik, 82 anni, magro come un chiodo e con in fronte il bernoccolo dell’Islam per lo zelo con cui da una vita, cinque volte al giorno, sbatte la testa sul tappeto da preghiera. «Quest’anno è già finita l’acqua per le nostre coltivazioni di caffè e di cotone, e non abbiano nessuna pompa per attingerla in profondità. Non oso pensare a quello che accadrà quando la diga sarà finita e in Egitto il Nilo entrerà più magro e più debole di sempre», aggiunge Shafik, mostrandoci i canali che per secoli hanno irrigato le terre intorno a Korosko e che oggi somigliano a trincee vuote, dove sul fondo ristagna una melma fangosa.
Il progetto
La “mostruosa” diga che spaventa l’anziano Shafik è la Gerd, acronimo ormai usato non solo dagli addetti ai lavori e che sta per Grand ethiopian renaissance dam, o Grande diga della rinascita etiopica, destinata a diventare il più grande sbarramento idroelettrico d’Africa, con una potenza annunciata di 5.150 megawatt. Per domare le acque del Nilo Azzurro sono stati ufficialmente investiti 6 miliardi di dollari, più della metà del budget dello Stato, e utilizzate dieci milioni di tonnellate di calcestruzzo, con cui è stato eretto un muro alto 170 metri e lungo quasi 2 chilometri. La prima pietra di quest’opera titanica è stata posata nel 2011 e da allora la sua realizzazione suscita aspre tensioni diplomatiche con l’Egitto, Paese con una popolazione in crescita esponenziale che già conta 100 milioni di abitanti e che per i suoi bisogni in acqua dolce dipende al 97% dal più lungo fiume del pianeta. Il terzo Paese coinvolto nella disputa è il Sudan, anch’esso spaventato dagli effetti della Gerd che a monte di Khartoum già riduce l’idrografia del Nilo, indebolendo la forza produttiva delle proprie dighe. Il Sudan rinfaccia all’Etiopia anche di aver recentemente scatenato le sue milizie intorno al fertile triangolo di Al-Fashaga, infrangendo un fragile compromesso firmato nel 2008 e provocando la fuga verso la capitale di decine di migliaia di persone.
L’annosa disputa diplomatica sulla diga s’è recentemente aggravata per via di un nuovo contenzioso. Il 3 luglio, Seleshi Bekele, ministro etiopico dell’Acqua e dell’Irrigazione, ha notificato al suo omologo egiziano, Mohamed Abdel Aty, l’inizio di una nuova fase di riempimento della diga a un ritmo ancora da definire, ma sicuramente molto più veloce di quanto vorrebbe il Cairo. Infatti, più l’operazione sarà svolta in fretta, più l’Egitto rischia di perdere centinaia di migliaia di ettari di superfici coltivabili perché non ci sarà stato il tempo necessario per ovviare all’improvvisa mancanza d’acqua. Già lo scorso marzo, davanti alle tv del mondo intero, sfoderando toni bellicosi il presidente egiziano Abdel Fattah Al-Sisi aveva detto che la diga era ormai materia di sicurezza nazionale, per poi minacciare l’Etiopia: «Nessuno rubi una sola goccia d’acqua all’Egitto altrimenti tutta la regione conoscerà una situazione di instabilità inimmaginabile».
Dopo l’annuncio del nuovo riempimento dell’invaso, che certamente diminuirà la portata del corso inferiore del Nilo, il Cairo ha nuovamente accennato a un possibile ricorso alle armi, invocando una legittimità storica sulle acque del fiume ereditata dall’era coloniale britannica, alla quale Addis Abeba contrappone la sua sovranità geografica.
L’obiettivo patriottico
A metà luglio, adoperando un’analoga retorica nazionalista, alle intimidazioni di Al-Sisi ha così risposto su Twitter il premier etiope Abiy Ahmed, vincitore nel 2019 del premio Nobel per la Pace: «Etiopi in patria e all’estero, per il bene del nostro Paese dobbiamo tutti difendere la seconda fase di riempimento della Grande diga della rinascita. Sforziamoci di proteggere la nostra sovranità e la nostra diplomazia». Il leader etiope guarda soltanto allo sviluppo economico e ai vantaggi che scaturiranno dall’energia prodotta dalla diga, compresi gli 800 milioni di dollari l’anno di elettricità che venderà a Sudan, Kenya e Gibuti. Infischiandosene, però, se per ottenere questi benefici metterà a repentaglio la sicurezza alimentare degli egiziani, con una riduzione del 25% della portata del fiume nel Paese nordafricano, e con pesanti ripercussioni sugli agricoltori come Shafik, che rappresentano quasi la metà della popolazione. «Arriva meno acqua e per immagazzinarla siamo stati costretti a chiudere alcune valvole, il che ha prodotto meno energia idroelettrica e ciò ha già comportato frequenti tagli di corrente a Khartoum», spiega Mustafa Al-Zubair, direttore del comitato tecnico della gestione delle acque e membro dell’equipe di negoziatori sudanesi. «La decisione unilaterale di Addis Abeba è una flagrante violazione del diritto internazionale, mentre tra vicini sarebbe piuttosto auspicabile una fruttuosa cooperazione. Dovrebbero fornirci al più presto i dati idrologici di ciò che accade a monte del fiume per permetterci di far funzionare i nostri dispostivi in sicurezza. Ma da quando hanno cominciato a costruire la loro diga, gli etiopici non ne vogliono sapere di scambiare informazioni con noi».
Un’impresa ciclopica
Il luogo scelto per la Gerd è in Etiopia nord-occidentale, nella regione di Benishangul-Gumaz, a settecento chilometri dalla capitale e a quindici dal confine sudanese. Imprigiona i flutti del Nilo Azzurro, braccio del fiume che si ricongiunge al Nilo Bianco a Khartoum, per poi proseguire verso l’Egitto. Una volta interamente riempita, una riserva di 74 miliardi di metri cubi d’acqua creerà un bacino artificiale lungo 250 chilometri, con una superficie di 1900 chilometri quadrati. Il Garda, che è il più grande lago italiano, con 52 chilometri di lunghezza e con una superficie 370 chilometri quadrati, è cinque volte più piccolo. Per Addis Abeba quest’impresa ciclopica è diventata un obiettivo patriottico: imbrigliare le acque del Nilo per fare dell’Etiopia il più grande dispensatore di energia rinnovabile del continente, forzando il fiume a passare nelle sedici turbine Francis per distribuire elettricità ai villaggi, alle fabbriche, alle città di un quarto dell’Africa oltre che ai 110 milioni di etiopi.
Per il riempimento dell’invaso, il governo etiopico deve approfittare della stagione delle piogge compresa tra giugno e settembre, e che in questi giorni permetterà l’accumulo di 13,5 miliardi di metri cubi d’acqua all’interno del corpo della diga. Ma l’inflessibile determinazione del governo e la sua decisione unilaterale di riempire la Gerd sono dovuti più a motivi politici che non di natura idrica, il che complica i negoziati e li allontana da una possibile soluzione. Dal 2011, per le autorità di Addis Abeba la Grande diga della rinascita deve servire da collante per tenere saldamente unito il Paese, sebbene dopo l’insurrezione scoppiata in Oromia nel 2020 per l’assassinio del celebre cantante locale Hachalu Hundessa e dopo l’attuale guerra nel Tigray, il potere agglutinante di un sia pur enorme progetto infrastrutturale appare quanto mai illusorio. Ad Addis Abeba, intanto, l’hashtag lanciato dal governo #ITSMYDAM, è la mia diga, è in fretta diventato virale. Lo ritrovi oggi ritrovi sulle t-shirt degli scolari, nei negozi, sui taxi e anche sui manifesti affissi nella capitale. L’edificazione della diga ha scatenato tra gli etiopi un sentimento nazionalista, che qualcuno ha paragonato alle emozioni che evoca il ricordo della battaglia di Adua del 1896, quando l’esercito abissino capeggiato dal negus Menelik II inflisse alle truppe italiane una pesante sconfitta, arrestando per molti anni le nostre ambizioni coloniali sul corno d’Africa.
Si sta dimostrando fruttuosa anche la mobilitazione finanziaria lanciata per sostenere i costi della Gerd, e irrobustita dalla nutrita diaspora che solo quest’anno ha inviato 4 milioni di euro di rimesse. Partecipano ovviamente anche i contribuenti, dal più povero dei contadini al più ricco degli imprenditori, tutti ugualmente tassati per il progetto, mentre a molte categorie professionali è automaticamente prelevata dalla busta paga una congrua percentuale dello stipendio da devolvere alla diga. La fine dei lavori è prevista per l’anno prossimo ma potrebbe protrarsi più in là per la mancanza di fondi stranieri, dovuta alla pandemia di Covid che ha fortemente diminuito le esportazioni. A oggi è stato ultimato l’80% dell’opera, ma la “Webuild”, l’ex Salini Impregilo, ossia l’impresa italiana incaricata dei lavori, ha più volte minacciato di fermarsi per troppi ritardi nei pagamenti.
La guerra del Tigray
A ciò si aggiunge la guerra nel Tigray, riattizzata a fine giugno dalla vittoriosa controffensiva dei ribelli tigrini che hanno appena riconquistato il capoluogo regionale, Macallè. La campagna militare lanciata da Addis Abeba nel novembre 2020 è già costata alle casse dello Stato 2,3 miliardi di dollari, e cioè quasi la metà del prezzo della Gerd. Non solo: sebbene il governo prometta una nuova prosperità economica legata alla sua realizzazione, le potenziali ricadute dell’opera sono in realtà legate ad altre variabili. Anzitutto per quanto riguarda la fornitura di energia delle zone rurali, che richiede prima grossi investimenti destinati a creare una vasta rete elettrica, al momento inesistente. Lo stesso discorso vale per i vantaggi energetici all’industria, di cui si potrà cominciare a parlare quando saranno finalizzati grossi progetti specifici, che al momento esistono soltanto sulla carta.
Nel suo discorso del 29 giugno, dopo aver annunciato il ritiro dei suoi soldati dal Tigray, il premier Abiy Ahmed ha parlato della Gerd come di una priorità nazionale, spiegando che se il suo governo si è finora mostrato inflessibile sulle trattative non è certo adesso che farà nuove concessioni. “Tuttavia, dopo le pressioni internazionali per la guerra del Tigray, dove sono state compiute spaventose atrocità e che ha lasciato quattro milioni di persone in condizione umanitarie disperate, Addis Abeba non potrà continuare a ignorare le rivendicazioni dei Paesi a valle della diga”, ci dice Aziz Sala, direttore del Centro della diga egiziana di Assuan, la quale fornisce 2000 megawatt, tre volte meno di quanti ne fornirà la Gerd. “L’Etiopia vuole accelerare i tempi per cominciare a produrre energia il più presto possibile. Per questo ha previsto di riempire il corpo della diga in sette anni, mentre l’Egitto chiede tempi più lunghi, e cioè dai quindici ai vent’anni, per evitare una troppo repentina diminuzione della portata del fiume e anche della quantità del fertile limo che normalmente viene trasportata verso la sua foce”. Intanto, lo scorso 11 luglio, Il Partito della prosperità (Pp) guidato dal premier Abiy Ahmed ha vinto le elezioni parlamentari dello scorso 21 giugno ottenendo una schiacciante maggioranza (421 seggi su 436). Questa vittoria spiana la strada alla rielezione del premier in carica: in base alla Costituzione, il leader del partito vincitore è poi eletto primo ministro.
Ma l’Etiopia settentrionale è nel caos con le forze del Fronte di liberazione del popolo del Tigray (Tplf) che continuano a conquistare città e obiettivi strategici nella regione secessionista, sbaragliando ovunque i soldati di Addis Abeba. Dopo aver inizialmente respinto una richiesta di cessate il fuoco da parte del governo federale, il Tplf l’ha poi accolta imponendo però una serie di condizioni, tra cui l’istituzione di un’indagine indipendente sulle atrocità commesse nel Tigray, il ritiro delle truppe eritree e delle milizie di etnia Amhara (alleate di Asmara e Addis Abeba), l’accesso incondizionato agli aiuti umanitari nella regione e la p iena fornitura di servizi essenziali come elettricità, telecomunicazioni, banche, sanità e istruzione. I membri del Tplf hanno inoltre sollecitato l’istituzione da parte delle Nazioni Unite di un organismo indipendente per indagare sui crimini di guerra e la creazione di un’entità internazionale per supervisionare l’attuazione di qualsiasi accordo di cessate il fuoco. Quello in atto, dovrebbe durare fino alla fine della stagione della semina, e cioè a settembre. Nel frattempo, la riconquista di Macallè e delle principali città del Tigray da parte del Tplf rappresenta un’importante svolta nel conflitto, che sta fortemente indebolendo il premier Ahmed.
È vero, i governi di Etiopia e Russia hanno firmato il 13 luglio un accordo di cooperazione nel settore militare che si concentrerà sulla trasformazione della capacità della Forza di difesa nazionale etiope soprattutto nel settore della tecnologia, ma nell’immediato a poco servirà per contenere le mire separatiste dei tigrini. È piuttosto sul piano diplomatico che ad Addis Abeba rimane spazio di manovra. Protagonista di questa battaglia è il vicepremier e ministro degli Esteri etiope, Demeke Mekonnen, che la settimana scorsa ha incontrato gli ambasciatori degli altri Stati rivieraschi dell’alto corso Nilo — Burundi, Ruanda, Uganda, Kenya, Tanzania, Sud Sudan, Repubblica democratica del Congo ed Eritrea — per aggiornarli sugli ultimi sviluppi dei negoziati. Durante l’incontro, Mekonnen ha dichiarato che la Gerd rappresenta le aspirazioni comuni a utilizzare in modo equo e ragionevole le risorse idriche, senza per questo danneggiare significativamente i Paesi a valle. Mekonnen ha quindi invitato i Paesi rivieraschi a forgiare un «fronte comune» nell’opporsi all’approccio adottato da Sudan e Egitto, che mina il ruolo svolto dall’Unione africana (Ua) accentuandone le «loro rivendicazioni coloniali e monopolistiche ».

L’Egitto con le spalle al muro
La diga ha fatto nascere sentimenti patriottici anche in Egitto, che ne rivendica una gestione regionale per evitare di ritrovarsi alla mercé di Addis Abeba nei periodi di siccità, sempre più minacciosi e sempre più frequenti per via del cambio climatico. Come per qualsiasi altro leader politico, anche per il presidente Al-Sisi è inaccettabile l’idea di dipendere da un altro Paese per gestire il proprio sistema idrico. Ecco perché, quando il 30 marzo è andato al Canale di Suez per assistere al disincagliamento della portacontainer Ever Given, il presidente-generale ha dichiarato: «L’Egitto non minaccia nessuno, ma nessuno è al riparo dalle nostre forze armate». Ed ecco perché, lo scorso aprile, dopo l’ultimo fallimento dei negoziati a Kinshasa, come dimostrazione di forza le truppe egiziane e quelle sudanesi hanno fatto per un mese un addestramento militare congiunto, battezzato “Guardiani del Nilo”. Alla fine di quelle esercitazioni comuni, dalla base aerea di Merowe, situata lungo il Nilo sudanese, si sono alzati in volo una dozzina di jet da combattimento per simulare raid aerei contro il possibile nemico etiope. «In questo modo abbiamo unificato le nostre risposte alla minaccia che riguarda i nostri due Paesi», spiega al telefono il generale sudanese Mohamed Alharam. «Abbiamo anche voluto avvisare l’Etiopia che non siamo disposti a tollerare ulteriori prevaricazioni nei nostri confronti». A metà giugno, per dirimere l’annoso problema, il Cairo e Khartoum hanno chiesto e ottenuto l’aiuto della Lega Araba, una mossa che però non è piaciuta agli altri Paesi africani, i quali non riconoscono il Nilo come un “fiume arabo”. Pochi giorni dopo, Sudan e Egitto firmavano un nuovo accordo di cooperazione militare. Al Cairo, intanto, s’è creato intorno all’opposizione alla Gerd uno straordinario consenso politico. Contro la diga etiope il presidente egiziano può perfino contare sul sostegno dei Fratelli musulmani, un movimento che pure represse con ferocia nell’estate 2013 e che ancora conta diversi leader in prigione o in esilio. Perfino lo storico oppositore Haitham Al-Hariri, ex deputato della Coalizione 25-30, ha pubblicato su Facebook un post in cui per questa vicenda esprime la sua piena solidarietà ad Al-Sisi. «In quanto cittadino egiziano, sono pronto a sostenere ogni sua futura operazione destinata a salvare i nostri storici diritti sulle acque del Nilo», ha scritto Al-Hariri. Nel Paese nordafricano non si parla d’altro che di future carestie e di una necessaria quanto salvifica guerra per salvare le acque provenienti dagli altipiani etiopici. In questi giorni sui social è apparsa l’immagine di Anubi, l’antica divinità egizia della mummificazione e dei cimiteri, che protegge le necropoli e il mondo dei morti. Sotto l’uomo con la testa di sciacallo, una didascalia recita: «Se dovesse scendere il livello del grande fiume, scatena contro l’Etiopia tutti i soldati del faraone e non richiamarli finché non avranno liberato il Nilo». Forse, proprio perché per Al-Sisi la risposta militare non è più un tabù, gli egiziani sembrano ormai disposti a seguirlo ovunque, come dimostrano le infinite condivisioni dell’hashtag #SAVETHEWATEROFTHENILE, Difendete le acque del Nilo.
Pur non condividendo l’opzione militare, Mohamed Nasreddin Allam, ministro dell’Irrigazione egiziano tra il 2009 e il 2011, spiega che per la sopravvivenza del suo Paese non rimangono molte altre strade: «Senza la presenza di un accordo, la portata del Nilo in Sudan e in Egitto sarà sotto l’esclusiva tutela di Addis Abeba, la quale potrà imporre le sue condizioni ai due Paesi a valle del fiume. L’Egitto sembra non avere scelta, poiché è diventata una questione di vita o di morte per la sopravvivenza dell’intero Paese. Tanto più che dopo tutte le minacce proferite contro gli etiopi, se alla fine l’esercito non dovesse intervenire il primo a pagarne le conseguenze sarebbe proprio il presidente Al-Sisi».

Una guerra alle porte?
A ogni fallimento diplomatico, il rullo dei tamburi si fa sempre più assordante. In realtà, per le posizioni rese inconciliabili dagli atteggiamenti assunti nel corso del decennio dai leader dei due Paesi, il negoziato sembra non essere mai veramente cominciato. Eppure, dopo la disfatta delle trattative a Kinshasa, mentre in molti credono che la guerra sia ormai alle porte, Félix Tshisekedi, presidente della Repubblica Democratica del Congo, e in questi mesi anche l’Ua, continua a ripetere che «non è fatalità il disaccordo tra le parti sulla Grande diga». Purtroppo, però, il capo di Stato congolese come mediatore ha clamorosamente fallito. Oggi, infatti, egiziani e sudanesi cercano altre soluzioni internazionali al negoziato. Il 25 giugno il ministro degli Esteri egiziano, Sameh Shoukry, s’è rivolto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, denunciando l’inutilità della soluzione panafricana su cui insistono gli etiopi. Nonostante l’assenza di risultati tangibili, l’Etiopia non vuole internazionalizzare il conflitto e continua a promuovere la mediazione continentale.«Tutte le opzioni sono sul tavolo», ci dice il ministro sudanese dell’Irrigazione, Yasser Abbas, riprendendo la frase pronunciata dall’ex presidente egiziano Mohamed Morsi nel 2013, poco prima di essere deposto dal golpe militare. Abbas ci confida anche che, due anni fa, Khartoum stava per firmare un accordo con Addis Abeba, «ma ci siamo resi conto che avremmo compiuto un errore, perché la soluzione raggiunta sarebbe stata parziale». Adesso, anche la diplomazia europea teme il peggio, come ci spiega un funzionario di Bruxelles in sede al Cairo: «Dobbiamo solo sperare che gli egiziani non siano così matti da bombardare l’Etiopia. Da anni si appellano al diritto internazionale, ma nessuna istituzione di peso gli ha ancora dato ragione. Nel frattempo, sono pronto a scommettere che Al-Sisi stia aiutando i Tigrini nella loro guerra contro il governo etiope, rifornendo armi e soldi attraverso il Sudan». Ma il corpo della diga è già in parte pieno d’acqua. È quindi troppo tardi per egiziani e sudanesi distruggerlo perché sarebbero loro i primi a subirne le conseguenze, con i loro sbarramenti idroelettrici che verrebbero travolti da una devastante onda anomala.
Un complesso scacchiere geopolitico
Negli ultimi dieci anni, l’Egitto ha chiesto l’intervento degli Stati Uniti, della Banca Mondiale e dell’Unione Africana, ma alla fine ogni mediazione s’è rivelata vana. Sempre alla ricerca di nuovi alleati, la diplomazia del Cairo ha cominciato a fare pressione in tutte le cancellerie della regione. E sulla lite che l’oppone ad Addis Abeba ha appena firmato un accordo militare con l’Uganda e il Burundi. Il 12 aprile scorso, sui rischi della Gerd, Al-Sisi s’è intrattenuto con il ministro degli Esteri russo, Serguei Lavrov, e poco dopo il capo della diplomazia egiziana ha chiamato il Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres per chiedere una riunione del Consiglio di Sicurezza. L’8 luglio, però, la riunione del Consiglio di sicurezza dell’Onu s’è conclusa senza un voto, ma soltanto con la dichiarata disponibilità a facilitare ulteriori colloqui. I membri del Consiglio hanno ribadito il proprio sostegno agli sforzi di mediazione dell’Ua e chiesto la ripresa dei negoziati auspicando che continuino sotto l’egida dell’organizzazione continentale, come da sempre auspicato da Addis Abeba. Anche stavolta dunque le Nazioni Unite hanno deciso di non sbilanciarsi. Alla pilatesca inerzia dell’Onu ha risposto l’11 luglio il ministro dell’Irrigazione egiziano, Mohamed Abdel Aty, ripetendo che il suo popolo è pronto ad affrontare ogni evenienza: «Stiamo studiando tutti gli scenari possibili per scongiurare una crisi idrica nel nostro Paese».
Basti pensare all’incidente della portacontainer Ever Given, che per sei lunghi giorni ha paralizzato il traffico marittimo nel Canale di Suez con ripercussioni sul commercio mondiale, per rendersi conto di quanto sia importante la stabilità dell’Egitto e dell’area che lo circonda. Una siccità provocata dalla diminuzione della portata del Nilo avrebbe effetti spaventosi anche sul piano migratorio. Milioni di egiziani lascerebbero le sponde del Nilo per tentare la fortuna attraversando il Mediterraneo. In un quadro geopolitico così fosco, l’Europa, che pure ha proposto il suo aiuto a Stati Uniti, Unione Africana e Onu nei diversi tentativi di mediazione, non sembra ancora consapevole delle conseguenze che potrebbe provocare un conflitto per la Gerd.
Nel vecchio continente, la Gerd riguarda da vicino soprattutto l’Italia, non solo per la sua posizione geografica che l’espone assieme a Cipro e alla Grecia all’arrivo in massa di migranti egiziani. L’idea di uno sbarramento idroelettrico sul Nilo Azzurro risale agli anni Trenta, nel periodo mussoliniano, quando si pensava a come impedire le inondazioni che colpivano regolarmente il Sudan. È inoltre italiana la società di costruzioni che ha edificato la diga, anche se Roma si era pronunciata contro la realizzazione dell’impresa, e ciò probabilmente su richiesta del Cairo per la firma di lucrosi contratti per la vendita di armi. L’attività della Webuild ha una lunga storia in Etiopia, dove ha compiuto numerose opere, talora accompagnate da controversie, ma sempre con la piena soddisfazione del committente. Il cantiere Gerd è di sicuro il più ambizioso per dimensioni e complessità tecnica, eppure, per non irritare l’Egitto, di cui l’Italia è il primo partner commerciale, la nostra diplomazia anziché esaltarlo preferisce ignorarlo. Contattati da Repubblica,i vertici dell’azienda di costruzione preferiscono non pronunciarsi .
È invece Asltom, che fornisce il dispositivo idroelettrico della diga, a coinvolgere la Francia nel progetto etiopico, pur avendo anch’essa ottimi rapporti commerciali con il Cairo, soprattutto legati all’industria bellica. Parigi cerca di mantenere una perfetta neutralità tra le parti, e sembra sottostimare i pericoli insiti nella crisi della diga. Washington, invece, che sotto Donald Trump appoggiava platealmente Al-Sisi con l’avvento di Joe Biden ha riequilibrato la sua posizione. Su richiesta di Trump, il Cairo aveva fatto pressione su Khartoum affinché l’anno scorso riconoscesse Israele, sebbene lo Stato ebraico fosse sempre stato dalla parte di Addis Abeba. Ma alla fine, anche la mediazione americana si è rivelata un fiasco, sebbene tra novembre 2019 e febbraio 2020 furono organizzati cinque summit tra Egitto, Sudan ed Etiopia. Al sesto, però, quello in cui era prevista la firma di un documento che siglava i progressi compiuti, gli etiopi non si sono presentati, adducendo un appiattimento statunitense sulle posizioni del Cairo. Otto mesi dopo, il dipartimento di Stato ha annunciato la sospensione di 260 milioni dollari di aiuti all’Etiopia.
Quanto a Pechino, con interessi economici in ognuno dei tre Paesi, ha ben cinque imprese nel cantiere della diga. Come ripete il suo ministro degli Esteri, Wang Yi, la Cina è pronta a sostenere una soluzione pacifica e negoziata della crisi. Lo scorso 7 luglio, pur avendo già investito molti soldi sulla Gerd, l’Arabia Saudita s’è schierata con l’Egitto incoraggiando «gli sforzi per preservare i suoi diritti sulle acque del Nilo e per risolvere la crisi in osservanza alle leggi internazionali». Più ambigua è la posizione degli Emirati Arabi Uniti, storici partner commerciali dell’Egitto, che hanno però investito pesantemente in Etiopia e che quindi preferiscono ignorare le rivendicazioni del Cairo e di Khartoum. Nell’aerea si stanno intanto delineando due opposte alleanze: Abu Dhabi che sostiene il Cairo, e Ankara che per una volta si schiera con un Paese a maggioranza cristiana contro un altro a maggioranza musulmana.
Una possibile congestione dell’acqua
Ma è vero, come teme il contadino Shafik, che quest’ampia regione del Continente sta per essere travolta da un conflitto? «Gli etiopi sono stati molto furbi ad accelerarne il riempimento della diga, perché hanno di fatto creato il più efficace deterrente contro un bombardamento da parte dell’aviazione egiziana», spiega l’islamologo francese Gilles Kepel, di cui esce in questi giorni l’ultimo saggio (Il Ritorno del Profeta, Perché il destino dell’Occidente si decide in Medio Oriente, Feltrinelli). «Certo, il Cairo potrebbe attaccare altri siti etiopici e soprattutto sostenere le fazioni secessioniste. Ma saldamente inserito negli accordi di Abramo, il generale Al-Sisi si sforza di massimizzare i benefici per migliorare il suo posizionamento regionale di fronte ai suoi rivali o ai suoi alleati. Dichiarare guerra all’Etiopia urterebbe gli equilibri geopolitici della regione e finirebbe col mettere a rischio i finanziamenti militari che l’Egitto riceve dagli Emirati e dell’Arabia».
Secondo William Davison, rappresentante del Crisis Group nel Corno d’Africa, è giunto il momento di trovare un compromesso. «Anche in Africa gli esempi ai quali ispirarsi non mancano, dal fiume Senegal al Niger, le cui portate sono da decenni gestite in maniera collegiale. Per arrivare a una cogestione delle acque del Nilo basterebbe che l’Etiopia offrisse qualche garanzia in più all’Egitto e al Sudan, Paesi che dal canto loro dovrebbero rinunciare ai diritti che rivendicano grazie a un trattato che non fu mai ratificato da Addis Abeba”, sostiene Davison. Quest’accordo di condivisione delle acque del Nilo risale al 1959: assegna al Cairo 55,5 miliardi di metri cubi d’acqua l’anno e 18,5 miliardi a Khartoum ignorando la parte di Addis Abeba. Da decenni gli egiziani si appellano a questo testo, di cui gli etiopi chiedono l’abrogazione.

Il ruolo del Sudan
Ma la soluzione è forse nelle mani di Khartoum, oggi schierato con il Cairo, dopo esser stato a lungo dalla parte di Addis Abeba, che con la Gerd aveva promesso la fine delle inondazioni in intorno alla capitale e l’elettrificazione delle campagne sudanesi. A provocare il brusco voltafaccia sono state le recenti schermaglie alla frontiera etiope, scoppiate in concomitanza dell’invasione del Tigray da parte delle truppe di Addis Abeba e che hanno riacceso un conflitto frontaliero che dura da decenni. «Una volta risolte le questioni dei seicento chilometri quadrati del triangolo di Al-Fashaga e della guerra nel Tigray, il Sudan potrebbe rivestire i panni del perfetto mediatore, perché anche geograficamente è situato in mezzo alle due grandi potenze regionali», aggiunge Gilles Kepel. «Mentre la diplomazia di Al-Sisi mobilita tutta una rete africana tessuta a partire dall’epoca di Nasser, il Sudan si ritrova oggetto di un conflitto che sorgendo dalle acque del Nilo irriga alternativamente le alleanze e le rotture nella regione». Il Paese che è stato governato fino al 2019 dal generale Omar al-Bashir, nel corso della sua storia ha ospitato terroristi di diversi credi, da Ilich Ramírez Sánchez, alias Carlos (dal 1991 al 1994) fino a Osama bin Laden (dal 1992 al 1996). Porto sicuro dei movimenti jihadisti attivi nel Corno d’Africa, bombardato da missili da crociera americani a metà agosto 1998 in ritorsione agli attentati di Al Qaeda contro le ambasciate statunitensi in Kenya e Tanzania il 7 dello stesso mese, il regime militare- islamista è anche servito come zona di transito per i missili iraniani destinati a Hamas nella Striscia di Gaza. Ma dalla rivoluzione della primavera di due anni fa, il Sudan è retto da un governo di transizione, composto per metà da civili e per metà da militari, al quale si sono avvicinati sia l’Arabia Saudita sia gli Emirati, disposti a investire miliardi di dollari per contribuire alla sua sicurezza alimentare. Prima di includere l’ex “Paese Jihadista” negli accordi di Abramo, per sottrarlo definitivamente all’asse Fratellanza- sciiti e per testare la sua disponibilità a riconoscere lo Stato ebraico, il 25 agosto 2020 l’ex Segretario di Stato americano Mike Pompeo aveva effettuato una visita nella capitale sudanese a bordo del “primo volo ufficiale tra Tel Aviv e Khartoum”. Lo scorso dicembre, lo stesso Pompeo ha annunciato che gli Stati Uniti hanno formalmente tolto il Sudan dalla loro lista nera di Paesi che sostengono il terrorismo, dove era iscritto dal 1993.
Rimane da sciogliere il nodo della regione di Al-Fashaga. Stretta tra i fiumi Setit e Atbara, secondo i sudanesi fa parte integrante del loro territorio, ma negli ultimi vent’anni è stata pacificamente invasa da migliaia di contadini etiopi e dalle milizie di etnia Amhara. A dicembre, approfittando del conflitto nel Tigray, in cui i miliziani Amhara hanno deciso di intervenire unendosi all’esercito di Addis Abeba per sconfiggere i loro storici nemici tigrini, Khartoum ha inviato le sue truppe per riconquistare le fertili terre di Al-Fashaga. Da allora, mentre continuano ad ammassarsi le truppe di entrambi gli schieramenti, non c’è giorno in cui non si contino vittime da una parte o dall’altra del confine. È in questo conflitto di frontiera che il Cairo e Khartoum potrebbero far trovare la scintilla per scatenare la guerra contro l’Etiopia.
Ma in seno al governo sudanese, soprattutto tra i civili che ne fanno parte, c’è chi non crede che la soluzione migliore sia il ricorso alle armi. Dice il ministro dell’Irrigazione Yasser Abbas: «Per raggiungere il nostro obiettivo, ossia per costringere gli etiopi a collaborare sulla Gerd, useremo solo mezzi pacifici, legali e diplomatici». Quanto al primo ministro, Abdalla Hamdok, ha deciso di invitare Abiy Ahmed ed Al-Sisi a Khartoum nel tentativo di riannodare i sottilissimi fili di un dialogo che, a suo parere, non è mai stato del tutto interrotto. Dopo dieci anni di appuntamenti mancati e di fallimenti diplomatici, la mediazione di questo pacificatore che è parte in causa, sarebbe l’ultima chance prima che le sponde del grande fiume si trasformino in una linea del fronte. Al posto di un conflitto che avrebbe conseguenze incalcolabili, potrebbe esser siglata un’intesa per accompagnare verso un futuro migliore tutta la regione del bacino del Nilo, che nel 2050 conterà più di 600 milioni di abitanti.
Profughi etiopi lungo le rive del fiume in Sudan fuggono dal conflitto nella regione del Tigray. Novembre 2020



