Poca percezione della convenienza e predisposizione a pagare di più per alimentari di valore
Il settimanale Time del 21 agosto scorso affronta il tema del cibo a buon mercato esortando gli americani: “potete anche lamentarvi del vostro conto della spesa alimentare, ma la verità è che non è mai stato così basso, almeno se si guarda il costo per caloria mangiata.
Secondo il ministero dell’Agricoltura (Usda), gli americani spendono attualmente meno del 10% dei loro introiti in cibo, contro il 18% del 1966”.
È uno dei risultati dello sviluppo dell’agricoltura intensiva: quattro tipi di prodotti forniscono i due terzi delle calorie giornaliere degli americani (grano 768 calorie, mais 554, soia 254 e riso 91) e, solo per dare due esempi, negli ultimi 130 anni la resa per ettaro del frumento è triplicata mentre la produzione del mais è passata, dal 1970 a oggi, da 4 miliardi di bushels a 12. Quest’ultimo dato è particolarmente importante perchè il mais è presente in un quarto dei prodotti di un qualsiasi supermercato americano, ivi inclusi gli articoli non alimentari, oltre che annoverare un consumo indiretto e il suo abbassamento di prezzo ha avuto un impatto profondo su tutta la catena alimentare degli Usa. Ne è un esempio l’hamburger, piatto nazionale, che deriva da bestiame il cui mangime è costituito in gran parte da mais.
SCARSA VALORIZZAZIONE?
Questa tendenza globale è visibile anche sul mercato italiano dove, come si legge su Agra News dell’8 settembre 2009 “I generi alimentari, come mostra un’indagine recente di Federalimentare, negli ultimi anni, in moneta costante, sono in effetti in gran parte diminuiti”. Sergio Auricchio, autore del pezzo, si domanda come mai Idm e Gd, che “avrebbero tutto l’interesse a creare valore intorno ai prodotti alimentari, basino la loro stessa comunicazione essenzialmente sul prezzo” e individua le cause di questa scarsa valorizzazione nel fatto che le poche iniziative pubblicitarie non centrate sui prezzi siano stereotipate e non puntino a mettere in evidenza il valore del cibo in termini di qualità.
Enrico Finzi, in una sua recente inchiesta, aggiunge che le aziende sbagliano nella gestione della comunicazione sottovalutando Sky e le trasmissioni specializzate nel cibo, il ruolo del medico di famiglia, i periodici specializzati e internet.
Al di là della pubblicità forse andrebbero considerati altri due fattori, a nostro parere, significativi: la rincorsa ai volumi che piega l’Idm alle logiche di prezzo della Gd e il fatto che quest’ultima segua, senza apparentemente ragionare troppo, un consumatore che per quanto riguarda il cibo è “ossessionato dal prezzo” (la definizione è di Auricchio).
UN POTENZIALE INESPRESSO
Eppure la Gd è entrata da tantissimi anni nel segmento premium (letteralmente di qualità superiore) con prodotti di fascia alta elo biologici. In questo comparto nelle store brand, nell’anno terminante a luglio 2009 (fonte Iri – Infoscan) la Gd ha fatturato 409 milioni di euro. Si tratta del 5,9% su un totale fatturato delle private label pari a 6.939 milioni di euro. Ma il dato è incompleto perchè non comprende i prodotti di filiera freschi (per esempio Patto Qualità di Iper o Percorso Qualità di Conad) e non fotografa, quindi, tutte le potenzialità delle private label di fascia alta.
Tutto ciò, secondo noi, dovrebbe stimolare alcune riflessioni.
La prima è che molti prodotti alimentari hanno un prezzo conveniente, anche se il consumatore non lo percepisce.
La seconda è che esiste, nonostante un forte momento di crisi, un consumatore attento, disposto a pagare di più per prodotti alimentari di qualità superiore.
Soprattutto i dati sui settori premium e bio sono importanti se si pensa che i prodotti in questione sono in gran parte tradizionali e che spesso la Gd, dopo il lancio iniziale, non ha più investito sia in ricerca sia in comunicazione. Il comparto ha un potenziale di sviluppo ancora inespresso e sottovalutato.
Di Giuseppe Caprotti, Mark Up – dicembre 2009