prima stesura del 18 febbraio 2014, ultimo aggiornamento del 19 giugno 2015
La famiglia Antonello, proprietaria della riserva San Massimo, situata nel parco del Ticino e facente parte dell’omonimo consorzio, ha fatto una scelta di qualità che paga.
Infatti, la volontà di lavorare e consegnare solo Carnaroli in purezza (come da confezione sotto) fa del riso della riserva un prodotto eccellente, ricercato dai migliori chef d’Italia.
E ne fa anche un ottimo esempio per chi vuole costruire nuovi prodotti di qualità nei parchi italiani.
Personalmente l’ho apprezzato tra i prodotti che avevamo selezionato per la vendita da QB e per i piatti del mio ristorante
Chi volesse approfondire il tema del riso, e delle furbate che ci sono dietro, può leggere questo articolo:
Riso amaro
E se la smettessimo di farci del male e dessimo il via a un modo nuovo di tutelare il nostro cibo?
Questa storia comincia nell’acqua, come il riso. Anzi no, perché il riso non nasce nelle risaie. Nei campi nasce il risone, ovvero il cereale che, quando viene trebbiato, presenta i chicchi avvolti nella lolla. Il riso nascerà solo dopo le lavorazioni (sono un bel po’ quelle diverse e legalmente possibili) che avvengono nelle risiere: in questi stabilimenti il risone perde il rivestimento e si trasforma in riso. Dunque, il riso, propriamente, è il prodotto degli stabilimenti di trasformazione, mentre gli agricoltori producono il risone, cioè la materia prima.
Eccoci al punto: il risone dipende dalla varietà seminata. Chi coltiva “Carnaroli”, produce risone “Carnaroli”. Per contro, il riso “Carnaroli” si può ricavare, legalmente, raffinando risone di varietà, come “Carnise” o “Carnise precoce” o “Karnak” o “Poseidone”, oltre a “Carnaroli”, ovviamente. L’escamotage si chiama omonimia: il riso può chiamarsi con il nome della varietà da cui deriva il risone, oppure con uno dei nomi delle varietà che appartengono alla stessa categoria agricola. E nella categoria del “Carnaroli” ci sono appunto gli altri nomi di varietà (e quindi di risone) che ho nominato.
Ogni anno viene pubblicato dal Ministero dell’agricoltura un decreto che permette di fare questa scelta: esso presenta due elenchi incolonnati, uno di fianco all’altro: a sinistra, il risone e, a destra, il riso. Nella colonna di sinistra, le varietà di risone sono raggruppate in base a quanto si “somigliano”. Tra la colonna di sinistra e quella di destra c’è solo una piccolissima differenza: fra i nomi delle varietà per gli agricoltori (quelle delle piante, da cui viene il risone) c’è una virgole. Viceversa, nella colonna di destra c’è una piccola “o”, che naturalmente significa un’alternativa. Quale alternativa? Solo quella del nome, perché le diverse varietà di origine non si possono mescolare.
Insomma, chi produce riso a partire da risone, maturato su piante di varietà Karnak, può chiamarlo “Karnak”, certo, oppure “Carnaroli”. Nei fatti, se io consumatore, compro del riso “Carnaroli”, magari sto comprando chicchi che sulla pianta si chiamavano invece “Karnak”.
È legale, certo, ma la domanda è: è anche giusto? Se lo sono chiesto (è grazie a loro che ho potuto appurare questa prassi) Beatrice Mautino e Dario Bressanini, nel loro ultimo libro. E quando l’ho scoperto ne ho potuto parlare con una risicoltrice del parco sud di Milano. Inutile dire quale sia l’umore degli agricoltori, coltivatori delle varietà rinomate autentiche. Il “Carnaroli” propriamente detto – intendo: dal risone al riso, dal campo alla cucina – si trova a competere con riso che si chiama nello stesso modo ma deriva dalla raffinazione di varietà diverse, per certi versi più facili da coltivare. Pensate che sia l’Europa a chiedercelo o se la legge del 1958 a imporre un simile maquillage? No. L’Europa non ci chiede di confondere i consumatori, trasformando nelle risiere ciò che nelle risaie è qualcosa con un nome (e una natura) diverse. E il Ministro dell’agricoltura non deve per forza regolare le cose in questo modo: lo fa ogni anno, ormai in forza di una lunga prassi, con il benestare di tutti coloro che possono esprime pareri sul suo decreto.
Ecco, io vorrei vedere i sindacati prendere una netta posizione rispetto a questa prassi, in difesa di quei loro associati che coltivano davvero le varietà di cui, grazie alla “sinonimia legale”, si avvantaggiano i coltivatori delle varietà ignote al pubblico. Esse non hanno nulla che non vada: semplicemente non sono quello che dicono di essere. Pensateci: chi non insorgerebbero se al ristorante un cefalo fosse legalmente chiamato sugarello o la vacca limousine venduta per chianina? È ora di smettere con le scorciatoie, per dare il vero giusto peso al diritto di scelta. Per questo non mi piace l’attuale progetto di legge sul riso che, se possibile, peggiorerà ancora le cose.
Se oggi infatti, un produttore di riso serio e attento può decidere di chiamare il proprio prodotto Karnak o Poseidone, quando derivi da queste varietà di risone, la nuova legge in discussione vorrebbe addirittura imporre la sinonimia: se il risone viene dal gruppo sui appartiene anche il “Carnaroli”, non potrà che chiamarsi “Carnaroli”. Con incredibile faccia tosta si presenta questo come un vantaggio per i consumatori, altrimenti confusi.
La foglia di fico di tanto scempio sarebbe chiamare il “Carnaroli” vero – cioè quello dal campo al pacchetto – “Carnaroli Classico”. Uno schema già visto, che non ci piace: per distinguere il Prosecco di pianura da quello originario, delle colline tra Asolo e Valdobbiadene-Conegliano, si usa l’aggettivo “superiore”; per distinguere l’aceto balsamico fatto mescolando aceto e mosto cotto, rispetto al prodotto simbolo di una storia millenaria, ci si affida all’aggettivo “tradizionale”.
Basta! Non si chiama “oro” la patacca e “oro classico” il nobile metallo: il confine tra vero e falso ancora esiste e i consumatori hanno diritto di conoscerlo.
Carlo Petrini
c.petrini@slowfood.it
Da La Repubblica del 14 giugno
Foto: Riso di Grumolo delle Abbadesse Presidio Slow Food ©Franco Tanel
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