Il 20 luglio 1903, in Ponte Albiate, muore Virginia Caprotti. Il necrologio, pubblicato su quasi tutte le testate giornalistiche locali e principali dell’epoca, riassume, tra le volute del linguaggio dell’epoca, quella che fu veramente la sua vita:
Preci fervidi [sic] /Per l’anima pia, generosa, retta / di /Virginia Caprotti /Che ventenne sacratasi nel mondo / Al Celeste Sposo, / Visse di purezza e di amore, / Zelatrice della fede del culto divino / Dell’insegnamento cristiano e civile, /Modello delle avite virtù, /Agli amati nipoti e congiunti, al popolo, /Da lei sempre amato e tanto beneficato, /Che piangono amaramente la di lei dipartita/A 64 anni.
Virginia è la secondogenita dell’avo Bernardo e di Carolina Candiani, nata dopo il mio futuro trisnonno Giuseppe (1837) e prima di un’altra serie di fratelli, Giulia (1841), Leopolda (Leopoldina, 1842), Carlo (1845), Luigia e Maria (Marietta). I bambini – e soprattutto le bambine – crescono nell’ambiente ricco d’incensi e di preghiere della piissima madre, tanto che nel 1859 Virginia, a vent’anni, pronuncia solennemente il voto di verginità, Leopolda e Maria, una dietro l’altra, si fanno suore tra le Fatebensorelle, e Giulia diventa maestra di lavori presso l’Istituto cieche e sordomute di Legnano; di Luigia è l’unica a sposarsi, probabilmente tra lo stupore generale.
Zelatrice, la definisce il suo necrologio. E in effetti un indistruttibile, instancabile, implacabile zelo animò questa convinta zitella per scelta, ispettrice delle scuole comunali per più di trent’anni, che si sentiva figlia del Signore e suo strumento non in un convento ma nel secolo, dove c’era così tanto bisogno.
Non soltanto infatti, com’era l’uso dell’epoca per le donne di buona famiglia, è membro di qualunque ente o fondazione caritatevole anche minima esista nei paraggi, a cominciare naturalmente dall’“Opera pia Candiani-Caprotti” voluta da sua madre per l’assistenza ai vecchi e agli infermi, ma è attentissima alle miserie quotidiane che si vede intorno: se un vecchio non ha dove riposare le ossa doloranti, lei gli trova una poltrona che questi, troppo povero, non avrebbe mai potuto procurarsi. Un piccolo esempio, forse, ma moltiplicato per cento fa di lei una persona decisamente invadente – chiede, sollecita, sprona, visita finché non ottiene lo scopo, fosse un rosario recitato per la santità dell’anima o un rimedio per il mal di stomaco -, ma indubbiamente capace, piena di risorse e sinceramente interessata al prossimo suo, anche se magari, nella sua torre di purezza e convinta della sua missione educatrice, che non ammettevano cedimenti, un po’ priva di empatia.
Sotto: nell’albero genealogico della famiglia Virginia, di cui purtroppo non abbiamo foto, è nel secondo riquadro
Virginia è il collante della famiglia. Fa continuamente la spola fra le case dove le sorelle che non sono rimaste ad Albiate si sono stabilite, se serve fa da “hub” per ogni carrozza, pacco e fornitura di passaggio, smistando con precisione parenti e camicie stirate; sprona e ammonisce, come nel caso degli auguri per il Natale 1898 mandati ai nipotini, piccoli capolavori di arte minima femminile arricchiti da raccomandazioni di controllato affetto; presiede a nascite e morti, le comunica anche, con lettere lunghe e moderatamente affettuose che ci riportano al tempo in cui gli eventi della vita erano perennemente sovrastati dalla morte. Così, ad esempio, il 10 settembre 1877 scrive al fratello Giuseppe dopo che, il giorno 8, era morta Maria, una sua figlia di soli due mesi, nata con una malformazione congenita:
“(…) Anche per te, mio caro Peppino, deve risultare doloroso tale annunzio ricevuto, ma forse ti è più facile mitigare il tuo dolore per la perdita di questa tua figliuoletta perché adesso contava poco tempo di vita, e quindi l’affetto e l’amore per essa era da principio; che se invece essa soccombeva dopo qualche anno di vita, oh! allora doveva essere più vivo e più sentito ancora il dolore, perché anche l’amore e l’affetto per essa doveva essere assai aumentato da parte tua per lei. (…)”.
Sembrano parole crude, ma all’epoca, con pochissimi bambini che riuscivano a passare l’anno di vita e poi faticavano comunque a diventare adulti, si tardava ad affezionarsi, si aspettava: sarebbe stato un inutile spreco di energie. A Virginia poi dispiace per la madre della piccola, la cognata Giuseppina sempre fragile e ansiosa, tanto che, d’accordo col medico, la manda alla casa paterna perché non faceva che scoppiare a piangere ogni volta che guardava la bambina morta. L’organizzatrice, la donna che sa cosa fare in ogni caso prende subito in mano la situazione: “Oggi le ho scritto [a Giuseppina] ragguagliandola del funeraletto fatto ieri alle 4 ore dopo mezzogiorno. Anche stavolta io mi sono presa il mesto incarico di preparare e le ragazzine e i fiori e le corone (…)”. E conclude col solito sprone, fratello mio “ritengo che ti sarai rassegnato alla tua disgrazia” (dopo due giorni scarsi dalla morte di una figlia!), d’altronde le disgrazie sono inevitabili, bisogna aspettarsele così si è sempre pronti “e non se ne sente tutto il peso”. Per fortuna, la piccola lapide della disgraziata Maria, murata su una parete dell’attuale cappella Caprotti nel cimitero di Albiate, parla di molto maggiore affetto e dolore.
Veloce, pronta e intollerante, la zia Virginia, specialmente quando si tratta di litigi e faide familiari. Non le permetteva, e faceva quindi di tutto per comporle. Due dei suoi nipoti, il mio trisnonno Bernardo e suo fratello Emilio, litigarono per tutta la vita, riuscendo ad esser negli affari dei veri pasticcioni – per non dir peggio -, che mandarono in fallimento ben tre aziende, tra cui la propria. Ma Virginia era abituata a non sentire ragioni e non permise mai che i due nipoti, il suo prediletto Bernardo e il burrascoso Emilio, giungessero a una rottura definitiva. Ad esempio comandava loro di venire a colazione da lei insieme alle mogli, e anche se i due tentavano di eludere l’invito con tutte le scuse possibili la zia poteva lasciar perdere una volta, ironizzando sulle scuse addotte (“hai la febbre anche tu?”), due no. Un esempio è questo bigliettino del 17 giugno 1900, indirizzato a Bernardo:
“Mi faresti il piacere, potendolo, di venire da me a colazione martedì alle 11 ore? Vi sarà qui anche l’Emilio e la Maria: ti raccomando poi di non andare in oca. / Addio, ti saluta di cuore la tua affezionatissima zia Virginia Caprotti.”.
La buona opera di tenere a bada due uomini che sul lavoro riuscivano a scannarsi sia che fossero concorrenti sia che fossero soci dovette essere continuata con successo da coniugi e nipoti, visto che i due, in anni ormai anziani, erano soliti passare il Natale insieme ed assieme ai congiunti.
Come detto all’inizio, Virginia muore il 20 luglio 1903, dopo aver riunito la famiglia viva e defunta (volle fortemente che i resti delle due sorelle morte giovani e “fuori sede”, Leopolda e Giulia, fossero traslati dalla primitiva sede al cimitero albiatese, ove furono tumulati assieme sotto la lapide che Virginia stessa volle per loro, anch’essa conservata).
Nel testamento olografo del 23 maggio 1903 lascia tutto al nipote Bernardo, a parte 100 lire per ciascuno dei pronipoti Lina, Silvia, Peppino, Giulia e Sandro e altri lasciti minori, nonché l’usufrutto vitalizio della sua casa e di quanto contiene alla sua dama Matilde Cesana, dopo che i nipoti avranno preso quadri, mobili o altro che li aggradino. Tutto ciò che avanzerà dovrà restare tutto in casa e niente andare venduto, perché tutto sia a profitto delle Suore che verranno in seguito. L’ultimo superstite di voi tre fratelli, nominerà al possesso di detta mia casa e terreno unito le Suore della Carità, le quali intendo abbiano ad essere posseditrici in seguito. Anche Virginia, più di vent’anni dopo, trovò definitivo riposo nella cappella di famiglia, concludendo così la sua intensa storia.
Probabilmente se avessimo avuto una mediatrice come la zia Virginia nei nostri rapporti ( padre- figlio) la mia storia in e con Esselunga e con la mia famiglia sarebbe finita in modo diverso.
Fonti:
Albiate, Villa San Valerio, Archivi San Valerio, Archivio Manifattura Caprotti.
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