Quello che colpisce davvero della pesantissima eppure prevedibile bocciatura dell’Italia sul fronte del digitale è il silenzio. Un silenzio assoluto. Nessuno, fra i partiti di opposizione, ha colto l’occasione per attaccare l’attuale governo – che in effetti ne è stato responsabile solo in quota parte, visto che è nato a settembre dello scorso anno e i dati si riferiscono a tutto il 2019 e quindi per azioni progettate nel 2018 -; nessuno, fra le forze della maggioranza, ha rivendicato la sconfitta per promettere che adesso si cambia musica, che abbiamo capito la lezione, che noi siamo l’Italia, diamine, il Paese di Meucci e Marconi, abbiamo fatto la storia dell’innovazione e rimonteremo questa terrificante classifica europea sullo stato della trasformazione digitale, il DESI, che ci ha visto perdere altre due posizioni, per posizionarci davanti a Romania, Grecia, Bulgaria e dietro a tutti gli altri.
Nessuno ha ritenuto di aprire un dibattito sul fatto che l’uso dei servizi digitali della Pubblica amministrazione, che ovunque è aumentato parecchio, da noi è addirittura calato (forse sono difficili da usare?). Nessuno si è soffermato sul numero esorbitante di aziende che ancora non fanno e-commerce e non sanno cosa è il cloud e poi si chiedono perché hanno smesso da almeno tre lustri di essere competitive. Nessuno si è scandalizzato per l’ultimo posto assoluto nel capitolo “capitale umano”, quello che misura le competenze digitali dei cittadini: quanto usiamo Internet e come. Poco e male. In realtà siamo forti sulle videochiamate, già prima della quarantena eravamo dei fenomeni pare, ma sul resto, gli ultimi.
Il ritardo italiano non nasce oggi, è cronico ma ci sono due novità: la prima è che non stiamo più rimontando, anzi, gli altri Paesi corrono più di noi; la seconda novità è la quarantena che ha fatto capire a tutti quanto Internet sia importante per la resilienza di un Paese. La capacità di adattarsi e resistere trovando soluzioni imprevedibili. Senza la Rete quei mesi chiusi in casa sarebbero stati molto più duri, il lavoro si sarebbe fermato ovunque, l’anno scolastico sarebbe stato annullato e noi avremmo sentito parenti e amici solo al telefono.
Oggi la consapevolezza, quella che gli economisti chiamano “la domanda di Internet” e che storicamente è stato l’alibi per rallentare sulla diffusione della banda larga, esiste. Va costruita una offerta: va fatto un piano e va realizzato in fretta. Il momento è adesso. Dall’Unione Europea stanno arrivando moltissimi soldi: quasi dieci volte di più di quelli del famoso Piano Marshall che servì alla ricostruzione dopo la guerra. Vanno usati portare l’Italia nel futuro: occorre completare la rete a banda ultralarga, certo; ma servono anche imprese capaci di usare il digitale per recuperare produttività; servono servizi pubblici che facciano lo stesso per migliorare efficienza e trasparenza; e servono cittadini con le competenze necessarie per far tutto con uno smartphone volendo, e soprattutto trovarsi un lavoro.
Negli anni passati ci si siamo riempiti di fuffa e di convegni, abbiamo creato contenitori vuoti e contenuti inutili, ci siamo accontentati di minuscoli progetti pilota e di roboanti comunicati stampa: saremo capaci finalmente di fare sul serio?
Gli Stati Generali di Villa Pamphilj rischiano di rinverdire la tradizione di annunci senza seguito (ricordate il ministro che promise “mezz’ora di Internet gratis a tutti”? Ecco, cose così). Oppure no: oppure saremo capaci di capire che su questo terreno vale la pena di unirsi, perché non esiste una differenza fra maggioranza e opposizione se parliamo delle competenze dei cittadini; e perché il compito che abbiamo davanti è numericamente immenso: non si tratta solo di portare in rete gli esclusi (un italiano su quattro), ma di far crescere la cultura digitale di tutti gli altri. Serve un patto fra imprese, scuola, radio, tv giornali; e serve l’impegno quotidiano della politica per realizzare le promesse mancate. Abbiamo l’occasione per cambiare il nostro futuro: abbiamo i soldi da investire e abbiamo la consapevolezza di quello che ci serve. Il DESI 2020 può diventare il punto più basso che ci ha dato la spinta per ripartire, oppure possiamo continuare a scavare. Sveglia, Italia!