Redatto il 27 giugno, aggiornato il 6 luglio 2024
Dal 23 al 25 giugno si è tenuto il Fancy Food a New York. Sembrerebbe strano che il nome di renziana memoria che vedete sopra – The extraordinary italian taste – sia stato riutilizzato da questo governo.
Nella realtà vedremo che, purtroppo, tra i due governi c’è una certa continuità:
nome e insegne sono gli stessi.
.. L’unico motivo per cui una fiera B2B come tante (sebbene la più grande nel suo genere di tutto il Nordamerica) è finita sui giornali italiani è perché la politica ha raccontato di averla in qualche modo selezionata come vetrina ideale dell’”extraordinary italian taste”…
… Come probabilmente sempre più spesso accadrà, con un Governo che spinge su una sempre maggiore autonomia delle regioni, ogni regione ha pubblicato il bando per la richiesta di partecipazione al padiglione italiano del Fancy Food. I contributi erano diversi (per esempio, le imprese della Campania hanno dovuto “compartecipare all’iniziativa con un contributo di euro 2.000,00 oltre IVA, quota maggiorata del 10% se il fatturato è compreso tra 500.000 e 1.000.000 di euro, quota maggiorata del 20% se il fatturato è maggiore di euro 1.000.000.“, mentre per quelle dell’Umbria è bastato “un contributo di partecipazione di 1000 euro più iva“. Anche i criteri per aggiudicarsi gli aiuti, sebbene con alcuni paletti fermi (la sede nella regione di riferimento, l’idoneità in termini fiscali e giudiziari) erano più o meno specificate, e includevano quasi sempre una certa attitudine al commercio con l’estero, testimoniata anche dalla partecipazione a precedenti eventi di questo genere…
…Per quanto ci siamo sforzati, non abbiamo trovato da nessuna parte, tra le regioni italiane, un riferimento all’eccellenza (che in effetti è un criterio complicato a definire in maniera oggettiva), o anche solo alla qualità, né ci sembra che in termini di punteggio questo aspetto sia determinante, se paragonato invece alla predisposizione commerciale (presenza di siti ecommerce, percentuali di export, fatturato). Per fare un esempio (sempre relativo alla Regione Campania, che è quella che pubblica con maggiore traparenza e facilità di reperibilità i punteggi), un’impresa che realizza prodotti a marchio DOP/IGP (20 punti), Bio (15) tradizionali (5), con certificazione ambientale (10), etica (5) e giovane (20 punti per meno di 30 anni del titolare), sarebbe facilmente battuta da un’impresa con più di 500mila euro di fatturato (20 punti), con un export maggiore del 30% (20 punti), con un’ecommerce (5 punti), e pure con un titolare di più di sessant’anni (Zero punti), perché i punteggi per i prodotti (Dop/IGP, bio e tradizionali) non sono neanche cumulabili tra loro.
Insomma, criteri commerciali per una fiera commerciale.
Nulla di male né di strano, in effetti, se non fosse che i contributi pubblici dovrebbero andare in altra direzione e se non fosse che si fa di questa fiera un esempio dell’eccellenza, più che della (sempre e comunque lodevole, sia chiaro) potenza commerciale dei prodotti italiani.
Il risultato è che anche la lista dei produttori partecipi pare rappresentare questi criteri: nell’elenco dei nomi dell’edizione invernale del Fancy Food (quello di quella estiva, presumibilmente, non lo abbiamo ancora trovato) non scorgiamo quasi nessuna di quelle realtà a cui noi affideremmo, su criteri diversi, la rappresentanza del meglio del meglio della produzione artigianale italiana. Ci sono importatori di caffè (?) e di specialità italiane, grandi produttori della GDO, medie aziende di surgelati e colossi della pasta o dell’industria dolciaria. E questo non significa che questi produttori, che oggi sono a New York in rappresentanza del Made in Italy, non siano validi: si tratta per lo più di imprese sane, buone, che lavorano bene. Ed è ovvio che per proporsi al mercato americano bisogna essere in grado di fare export, e le aziende presenti lo sono certamente di più del piccolo artigiano che ha una piccola bottega. Ma non è detto che anche lui non possa attrezzarsi: basta capire qual è il Made in Italy su cui vogliamo puntare.
Sotto : lo stand di Coldiretti in terra americana (serve solo per i giornalisti italiani, negli USA nessuno sa che siano Prandini e Lollobrigida).
Dissapore mostra quindi il suo dissenso (non scorgiamo quasi nessuna di quelle realtà a cui noi affideremmo, su criteri diversi, la rappresentanza del meglio del meglio della produzione artigianale italiana).
Personalmente, invece, credo che la “regionalizzazione” delle fiere sia un’idea pessima che era già in atto, più di 20 anni fa quando lavoravo per Esselunga : si capiva perfettamente che non c’era una regia unica e che ogni regione o addirittura ogni provincia andava per conto suo, come un’ “armata Brancaleone” del cibo.
In un paese già di sè poco ordinato e poco disciplinato come il nostro si intuisce perfettamente cosa succederà con “l’autonomia differenziata”: nel mondo dell’export avremo sicuramente meno visibilità e minor peso. Nelle fiere, alla mancanza di un criterio di eccellenza, si sommerà una presentazione che non ci fa onore, con dei gruppi di stand isolati e dispersi nei vari settori di competenza.
La continuità della politica, in questo caso, non consola.
Anzi.
Il rischio, poi, con il regionalismo, è che si torni alle vecchie lotte, come quella tra Cibus (Parma) e Tuttofood (Milano). Il caso Barilla contro Coldiretti non lascia prevedere nulla di buono.