Prima stesura: 30 giugno 2015, ultimo aggiornamento del 21 settembre 2015
Il 26 maggio 2015 a Milano il governo Renzi, in sede Expo, ha presentato il nuovo marchio The Extraordinary Italian Taste.
Le caratteristiche del nuovo “brand”, che dovrebbe valorizzare i prodotti italiani all’estero sono:
1) “comunicare quale sia il vero prodotto made in Italy”
2) “lavorare con la grande distribuzione per far atterrare i nostri prodotti sugli scaffali” dei distributori esteri
Così ha detto il vice ministro Carlo Calenda a Il Sole 24 ore del 28 maggio 2015.
Il governo ha messo a disposizione del “Made in Italy” 72 milioni di € che serviranno a promuoverlo oltre- oceano ( solo per le promozioni negli USA si tratterà di un fondo di 44 mio.)
Ma rimane da capire quale sia il vero Made in Italy, visto che:
a) molto spesso importanti marchi operanti sul nostro territorio, utilizzano i simboli dell’italianità, nonostante i loro ingredienti siano esteri, v. Esselunga, la GD, il tricolore e l’italian sounding
b) le materie prime dei prodotti fatti sul nostro territorio sono solamente al 72% provenienti dall’Italia (vedi articoli sotto)
c) non esiste un’etichettatura chiara (idem).
Se il Made in Italy passa dalla distribuzione
Made in Italy: per l’alimentare l’etichettatura è fondamentale
Il Made in Italy può diventare un Marchio?
Chi deciderà quali prodotti sono Made in Italy e quali non? Confindustria? Il governo?
La “passione italiana” di Agnesi è prodotta con grano italiano?
E suscita perplessità il fatto che i prodotti , con il marchio The Extraordinary Italian Taste, non verranno etichettati ma solamente “evidenziati” a scaffale :
Come? Per quanto tempo? Chi controllerà l’esecuzione delle promozioni, ad esempio, in Texas?
L’Italia avrebbe bisogno di un marchio forte, v. L’Unesco, i biscotti, la pizza e il Nation Branding ma prima andrebbe sciolto il nodo delle denominazioni di origine protetta perché le Dop e le Igp sono fortemente avversate negli Usa (v. Cibo : le possibili insidie targate USA).
Un’eventuale accettazione delle politiche USA (v. sempre Cibo : le possibili insidie targate USA) – dove i prodotti dell’ italian sounding sono legali e protetti – abbinato ad un marchio debole, come sembra essere The Extraordinary Italian Taste, rischia solo di portare allo spreco di 72 milioni di €.
Da notare ed elogiare invece l’iniziativa di Unes, Conad, Vegè e Coralis per il ripristino dell’indicazione del luogo esatto di produzione in etichetta
Da sinistra: Beniamino Casillo, Vito Gulli, Raffaele Brogna, Mario Gasbarrino, Domenico Canzoniero, Eleonora Graffione, Francesco Pugliese, Giorgio Santambrogio
“Un passo avanti nella battaglia per ripristinare l’obbligo di indicazione del luogo di produzione sulle etichette dei prodotti alimentari è stato compiuto nel corso del tavolo di lavoro durante il Green Retail Forum a Milano.
L’amministratore delegato di Unes Mario Gasbarrino, di Végé Giorgio Santambrogio ed Eleonora Graffione, presidente di Coralis si sono dichiarati d’accordo ad appoggiare la proposta espressa dall’amministratore delegato di Conad Francesco Pugliese sul dar luogo a una raccolta di firme, coinvolgendo i cittadini-consumatori nella abolizione di una «legge scellerata».
Ecco nelle parole di Pugliese la proposta, alla quale hanno aderito anche i due rappresentanti dell’industria presenti: Vito Gulli, amministratore delegato di Generale Conserve, che da tempo si batte – uno dei pochi, se non il solo, nel mondo industriale – contro questa stortura e Beniamino Casillo di Casillo Group.
Nel corso dell’incontro sono stati affrontati i temi chiave che stanno dietro a questa battaglia che, ricordiamolo, nasce dall’entrata in vigore a metà dicembre scorso del Regolamento europeo 1169/11 riguardante l’etichettatura dei prodotti alimentari che ha introdotto l’indicazione degli allergeni, la esatta composizione degli ingredienti (il caso dell’olio di palma è deflagrato proprio per questo motivo) con l’obiettivo di una maggiore informazione dei consumatori, ma ha reso facoltativa l’indicazione del luogo di produzione.
«Si tratta di una vera istigazione alla delocalizzazione – puntualizza Vito Gulli – e sul tema l’industria si è dimostrata miope. Inoltre ha generato una confusione che non fa bene a nessuno, perché la questione dell’etichetta si è sovrapposta al dibattito sull’origine della materia prima. Sgombriamo il campo da questa confusione. Sono due cose completamente diverse. Non nego però che la battaglia per la trasparenza porti con sé un rischio di nazionalismo, leghismo, salvaguardia dell’italianità: quel che conta è la trasparenza. Non solo. Qualcuno potrà dire che l’obbligo dell’indicazione dello stabilimento di produzione (peraltro condensato in una stringa di sei cifre) è salvo, ma non è la stessa cosa del luogo di produzione».
La battaglia della distribuzione, che peraltro indica il luogo di produzione sui prodotti a marchio, guarda avanti. Spiega infatti Mario Gasbarrino «Il motivo per cui dobbiamo intervenire non riguarda l’oggi, ma può succedere, e dobbiamo aspettarcelo, che qualsiasi nuovo proprietario straniero di un’azienda italiana possa decidere di lasciare la sede legale in Italia e produrre all’estero un prodotto connotato con un marchio italiano, che è sempre stato prodotto in Italia e come tale è conosciuto dai consumatori. Noi vogliamo che sia salvaguardata la trasparenza nei confronti dei cittadini consumatori. Poi saranno loro a decidere di acquistare un prodotto perché è fatto in Italia o un altro anche se non viene prodotto in Italia. Ma la trasparenza è fondamentale».
Non mancano le iniziative dei singoli distributori, come la stessa Unes che visualizza sull’etichetta a scaffale l’origine di produzione dei prodotti a marchio («ma stiamo pensando di estenderlo anche all’industria di marca», chiosa Gasbarrino) o Coralis, che con Etichètto segnala una selezione di prodotti di marca nati e prodotti in Italia.
Assordante il silenzio al riguardo delle associazioni di categoria dell’industria ma anche della distribuzione. Ne rende conto Raffaele Brogna che con Io Leggo l’etichetta ha dato vita prima che scoppiasse il caso a una raccolta di firme online e ha sollecitato la firma la distribuzione che ha aderito in gran numero a livello di insegna, mentre «ci sono stati tanti silenzi da parte delle associazioni e delle singole imprese industriali». In realtà la posizione dominante tra le imprese industriali, in qualche modo recepita dal Mise e dal Mipaaf, è che occorre lavorare in modo che l’obbligo di indicazione valga per tutti i paesi europei. Che è un tipico atteggiamento italiano per non affrontare un problema aprendo un’altra questione che darà origine a altri tavoli di discussione.
Sulle rappresentanze della distribuzione il pressing è forte, ma per ora non c’è una presa di posizione. La determinazione dei quattro retailer presenti all’incontro però è forte così come la consapevolezza di rappresentare, in quel contesto, la gdo italiana. Poi, quando partirà la raccolta di firme, probabilmente la compagine crescerà”.
Da notare che l’iniziativa “etichettiamoci” di U2 (Unes), Conad, Corali e Vegè ha ottenuto che il governo approvi uno schema di disegno di legge per il reinserimento dell’obbligo di indicazione dello stabilimento di produzione o di confezionamento sui prodotti alimentari
Pagina sotto dal Corriere della Sera del 20 settembre 2015
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