Diciamoci la verità: nei prodotti della Gdo c’è poca responsabilità
di Luigi Rubinelli
Mentre in ogni dove si discute di intelligenza artificiale e derivati, di consegne ultrarapide (sic!) nel mondo della Gdo e più in generale nel largo consumo (e quindi nelle aziende di marca) di sostenibilità dei prodotti ce n’è poca.
Devo dire con sincerità che le informazioni intrinseche nel prodotto sono poche, sia per i prodotti di marca, sia per i prodotti a marchio del distributore (Mdd). Le tematiche sono complesse, lo spazio per comunicare è poco, il consumatore non comprende i termini tecnici, gli standard di riferimento spesso non esistono. Tutto comprensibile, ma da qualche parte si deve pur cominciare a fare chiarezza, se vogliamo davvero parlare di produzione sostenibile. E allora, perché non iniziare dalle materie prime? Perché non rendere tracciabile tutta la filiera? Perché non premiare le aziende che davvero lo fanno?
Esistono casi virtuosi di brand, non lo vogliamo negare, vedi per esempio RioMare, Barilla, illy, Regina ecc. Basta leggere con attenzione le loro etichette, visitare i loro siti, leggere i loro report di sostenibilità e scopriamo con quanta trasparenza rendicontano il loro operato.
Purtroppo troppo spesso i comunicati stampa e le dichiarazioni ufficiali del mktg si limitano ancora a decantare un nuovo pack per la sua veste grafica o un nuovo prodotto per la sua bontà. Ma, se non ora, quando cominciamo ad educare i consumatori, orientandoli verso la conoscenza delle vere materie prime? Raccontando quello che di vero c’è dietro ogni prodotto?
Mediobanca nella sua ultima analisi (leggi qui) sulla Gdo ha inserito in un apposito capitolo il tema della sostenibilità. È un primo passo molto importante che auspichiamo funga da incentivo per il comparto.
E’ giunto il momento di andare oltre il tema del carbon footprint, che è sicuramente un tema essenziale ma, se si vuole parlare davvero di sostenibilità dei prodotti, bisogna per forza risalire alla cima della filiera: occorre vendere prodotti pensati per essere sostenibili dalla materia prima, appunto, al suo smaltimento finale, occorre finalmente puntare alla circolarità di cui tanto parliamo. Anche quando si creano le Mdd.
Entro breve il 25% delle vendite della Gdo (leggi qui) saranno espresse dalle Mdd, cioè 1 prodotto su 4 acquistato sarà a marchio del distributore. Visto che lo sostiene Ambrosetti, tutti applaudono (giustamente) e nessuno osa replicare o aggiungere qualche pensiero.
Ma proprio per questo è necessario risalire nelle analisi sulla sostenibilità alle materie prime utilizzate, corredandole di scheda, dove non ci deve essere nulla né di experience né di entertainment, ma solo dati e riferimenti precisi.
E visto che circa il 70% delle vendite di Mdd sono mainstream, forse bisognerebbe sì esprimere un pensiero strategico sulla formulazione del prodotto, al di là del packaging. Lo dico perché le varie ricerche presentate ultimamente (anche al salone Marca di Bologna) evadono con eleganza questo approfondimento vitale per le Mdd.
Quando nel 2016 Coop presentò il nuovo brand Mdd, Origine, rimasi incuriosito dalla profondità delle informazioni. Lo stesso han fatto Finiper e Carrefour nei primi anni di questo secolo, risalendo addirittura alla singola parcella dove la materia prima era coltivata. In parte anche Esselunga.
Francamente non ho altre informazioni disponibili simili di altri retailer. Ormai quando nasce una nuova linea o un altro brand della Mdd è destinata al segmento del Premium. Come se tutto lo sforzo di immagine dell’insegna dovesse riversarsi sulla parte più alta della scala prezzi.
La riscrittura del mainstream è obbligatoria, come la dotazione di informazioni a scaffale sulle materie prime utilizzate.
Faccio un esempio su tutti: le uova.
La loro classificazione (da 0 a 3, 0: uova da allevamento biologico,
1: uova da galline allevate all’aperto (una gallina per 2,5 metri quadrati),
2: uova da galline allevate a terra (sette galline per un metro quadro),
3: uova da galline in gabbia (25 galline per un metro quadro) dice in che modo sono allevate le galline.
Quando si dice a terra, molti retailer evitano di dire che si, sono allevate a terra, ma in stanzoni chiusi, dove la densità di animali rinchiusi è talmente alta da essere pericolosa, per le galline e per le uova prodotte. Ma le uova utilizzate per fare il prodotto (ad esempio la colomba pasquale, il panettone o quel che volete voi), non sono riconducibili alla classificazione appena riportata, anche quando l’incidenza delle uova è notevole.
Beh, questo non è un bel comportamento responsabile!
Aspettiamo di vedere etichette trasparenti e responsabili davvero (anche con i rimandi QRCore e quindi virtuali), proprio per parlare seriamente di sostenibilità.
Sotto alcune etichette di una nota catena della gdo : la prima è di una pasta “premium”, l’altra della pasta “normale” e dell’olio extra vergine.
Notate le differenze. Tra di loro e anche con l’etichetta in fondo.
Personalmente ho trovato l’origine delle materie prima solo sulle etichette della Coop Svizzera ma, dopo 14 anni, questo mio esempio, citato in un convegno, rimane -ad oggi – unico.
Il seguito in : Origine del latte : Lidl contro Lactalis (in Italia marchi Galbani, Parmalat, etc )
Pubblicato il 20 aprile e aggiornato il 29 aprile 2021.