La “pizza Unesco” di Gino Sorbillo. Coldiretti propone che la pizza napoletana diventi patrimonio dell’Unesco
L’Italia è la nazione che detiene il maggior numero di siti e patrimoni dell’umanità (51) patrocinati e protetti dall’Unesco, v. Il panettone dell’Expo di Milano 2015 ? Con l’uva zibibbo di Pantelleria
Dietro di noi vengono Francia, Cina e Spagna.
La Francia tende a valorizzare meglio questi riconoscimenti rispetto a noi.
Inoltre La gastronomia francese ha fatto il suo ingresso nel patrimonio mondiale immateriale dell’Unesco nel 2010 mentre l’Italia non ha ricevuto questo riconoscimento:
Il 16 novembre 2010, l’Unesco ha esteso la sua protezione al pasto gastronomico alla francese, che va ad aggiungersi ad altre 212 pratiche e consuetudini culturali che costituiscono il pantheon del patrimonio mondiale immateriale dell’umanità.
Il pasto gastronomico alla francese inaugura l’elenco delle tradizioni culinarie che, nel 2010, sono state segnalate dal comitato intragovernamentale dell’Unesco, riunito a Nairobi, in Kenya, per la salvaguardia del patrimonio immateriale dell’umanità. La dieta mediterranea, la cucina tradizionale messicana e il panpepato croato hanno tutti trovato posto in questo registro.
A differenza del patrimonio materiale – che comprende i siti e i monumenti –, il patrimonio immateriale si riferisce ai processi culturali che “ispirano alle comunità viventi un sentimento di continuità in relazione con le generazioni che le hanno precedute e che rivestono un’importanza cruciale per l’identità culturale, ma anche per la salvaguardia della diversità culturale e della creatività umana”.
L’Unesco non ha posto in evidenza alcuna ricetta francese. Nel paese di Gargantua, è più un rituale d’identificazione “destinato a celebrare i momenti più importanti della vita degli individui e dei gruppi” a essere stato acclamato. Un mix originale di convivialità e gastronomia, che riunisce i francesi attorno a una tavola apparecchiata, per condividere cibi di qualità accompagnati da vini appropriati.
E oltre al gusto per il buon cibo, l’Unesco ha ugualmente consacrato tre ulteriori consuetudini culturali francesi: l’affiancamento lavorativo, la falconeria e il pizzo a punto d’Alençon. La Francia annovera ormai nove tradizioni culturali iscritte nell’elenco dell’Unesco.
La Francia valorizza meglio il suo patrimonio artistico e culturale perchè lo conosce, ne fa un sistema e lo esporta, un pò come farà con le Galeries Lafayette e il Louvre negli Emirati.
Non c’è però sempre bisogno di Jean Nouvel per valorizzare il proprio bagaglio culturale.
A volte basta un semplice pacchetto di biscotti, la cui fabbricazione è legata da sempre ad uno dei siti più belli del mondo.
Ed è così che la Mere Poulard, produttore di biscotti al burro, si fa promotrice del Mont Saint Michel che appare su tutte le confezioni
e non solo: se si guarda sul lato dei biscotti si viene a sapere che il Mont Michel fa parte dei siti patrocinati dall’Unesco
questi biscotti si trovano in 4000 punti di vendita francesi e tante altre centinaia se non migliaia all’estero.
Perchè in Italia nessun produttore imita la Mere Poulard?
Genova, ad esempio, è sito Unesco dal 2006:
Panarello, Grondona ,Romanengo o Maltus Faber, produttori genovesi di buon cibo , potrebbero trarre qualche spunto interessante da questo esempio.
Ma anche i produttori di altre città italiane potrebbero riscoprire le loro bellezze. Parliamo di Napoli, Roma, Pienza, Firenze, Mantova, Urbino, etc.
Abbinare i prodotti ai ns. siti patrimonio dell’Unesco sarebbe già un modo sano di esportare nel mondo l’Italia bella e che produce cose buone.
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In Asia i nostri concorrenti, sul piano del’immagine, del turismo, della ristorazione e della vendita di prodotti alimentari, si stanno muovendo
E a proposito di Giappone e Corea Andrea Goldstein giustamente scrive che…
GEOPOLITICA GASTRONOMICA
La via della seta porta in cucina
L’Asia scopre il soft power culinario e lo sfrutta con il bollino Unesco
Andrea Goldstein
Il Sole-24 Ore – 2013-11-05 – Pag. 16
La torta diplomatica è un vanto della pasticceria italiana, ma anche in Asia si è consci che dall’unione tra crema pasticcera e crema chantilly possono nascere opportunità di business e soft power. Come spiegare altrimenti la richiesta di proteggere obanzai e washoku con il bollino Unesco di “patrimonio intangibile universale”? Il riconoscimento dovrebbe essere concesso all’inizio di dicembre e certificherà che la cucina giapponese è “una tradizione ereditata dai nostri antenati e che va trasmessa ai nostri discendenti”, come il Carnevale brasiliano, il Tango argentino, o il patrimonio gastronomico francese e la dieta mediterranea.
In parte è un fenomeno reattivo alla diffusione planetaria della cultura gastronomica (se così la vogliamo definire…) di Starbucks, McDonald’s e Pizza Hut, per non parlare dei piatti precotti a base di carboidrati – in altre parole, di una delle manifestazioni più eclatanti del soft power americano. In parte integra un’accorta strategia per promuovere pratiche ancestrali difficilmente codificabili, e trasformarle in marchi globali.
Attrattività e competitività hanno bisogno di nation branding, una strategia che passa per le cucine, non meno che dalle aule di scuola, dalle infrastrutture e dai gabinetti ministeriali.
Per restare in Giappone, paese che ormai conta più stelle Michelin dell’Italia, il premier Shinzo Abe ha promesso di raddoppiare l’export entro il 2020. Con il bollino Unesco si potrà veicolare l’immagine di una cucina più variata che il sushi, accompagnare la globalizzazione dei ristoranti e vendere più coltelli, alcolici e magari anche prodotti umami (il quinto sapore che è alla base della cucina dell’arcipelago).
Se lo fanno in quello del Sol levante, difficile pensare che non lo facciano anche nel paese del Mattino calmo. E infatti, a essere esaminata e presumibilmente approvata dall’Unesco sarà anche identica richiesta per l’arte coreana del kimchi. Un’altra tappa dell’ambiziosa globalizzazione della cultura coreana (Hansik Globalization) che era uno dei progetti faro dell’amministrazione di Lee Myung-bak e di cui era ambasciatrice Kim Yoon-ok, la First Lady. A onor del vero, i risultati sono stati magri, a dispetto di studi che mostrano che il consumo di cavolo fermentato favorisce la virilità, e il nuovo governo intende rivedere il progetto di promozione della cucina. Ma la Corea si è imposta come una potenza dell’agroalimentare globale, le cui sirene attirano sia le multinazionali che vi fanno ricerca e sviluppo, sia Slow Food che vi ha tenuto il primo evento asiatico a inizio ottobre. E l’export di kimchi verso gli Stati Uniti è cresciuto del 25% nel 2012.
Chi invece paradossalmente non ha ancora investito su questa forma di soft power è la Cina. Non che manchino i ristoranti cinesi in giro per il mondo, ovviamente, ma la loro diffusione è stata spontanea e legata ai fenomeni migratori. Sulla West Coast, dove la scoperta dell’oro nel 1848 anticipò la nascita di molteplici Chinatown, sopravvissute anche al Chinese Exclusion Act del 1882 che chiuse a lungo i canali migratori. Catene come P. F. Chang’s e Panda Express le hanno create imprenditori americani di origine cinese e servono cibi adattati al gusto americano.
Il precedente per tutti è il pasto gastronomico francese che dal 2010 si fregia del bollino Unesco. Cibo e politica estera sono legati nella storia transalpina: è a tavola che si tessono le relazioni internazionali (del resto tutto si perdona a un diplomatico tranne che non sappia stare a tavola), la conversazione si svolge per secoli in francese e i “piatti franchi” sono francesi. Anche in tempi di ristrettezze come quelli attuali, le grandi istituzioni, pubbliche e private, resistono con le unghie e – appunto – coi denti prima di tagliare le spese di rappresentanza e le cucine. Almeno di fare come LVMH, proprietario tra l’altro dell’hotel Cheval Blanc di Courchevel dove officia Yannick Alléno, già chef tri-stellato del Meurice di Parigi. Non a caso a cuochi francesi è stato concesso il raro privilegio di cucinare insieme ai colleghi giapponesi la cena che ha concluso la visita di Stato di François Hollande a Tokyo. E che gli allievi stranieri della Ferrandi di Parigi, l’Harvard delle arti culinarie, siano raddoppiati dal 2009, la metà provenienti dall’Asia.
Peccato che a ritrovarsi intorno alla tavola imbandita siano ormai pochi francesi che, grandi e piccini, preferiscono le catene della distribuzione rapida come Brioche Dorée. Il gruppo familiare bretone, 220 milioni di euro di fatturato nel 2002, 1,5 miliardi quest’anno, ha moltiplicato per 35 il suo giro d’affari negli Stati Uniti nello stesso periodo fino a farne il suo principale mercato. Adesso punta all’Asia: entro il 2020, conta di aprire 115 punti vendita in Giappone, 80 in Corea, un centinaio in Cina con un partner locale. Non sarà facile: non che in Asia non amino les viennoiseries bianco-rosso-blu, anzi, ma pensano che quelle autentiche siano Paris Baguette, Paris Crossant e Tous Les Jours … insegne dei giganti coreani SPC (per Superb Project Company) e CJ. Una specie di pena del contrappasso per Louis Le Duff, principale ristoratore “italiano” in Francia con i suoi Del Arte (mentre a Seoul dominano i Caffe Pascucci della SPC)!
Resta che l’eccezionalità della gastronomia nazionale può fare bene all’economia, all’orgoglio e alla proiezione internazionale.
Magari ancora di più in paesi che invecchiano rapidamente e in cui il rischio che i saperi della tavola s’inaridiscano col passaggio delle generazioni incombe dietro l’angolo. E allora, itadakimasu!
Da “Il Sole 24 ore” del 5 novembre 2013
foto credit: jojoscope.com
La Corea del Sud, nel dicembre del 2013, ha ottenuto il bollino Unesco per il kimjang che è il rito di preparazione del kimchi, piatto tradizionale molto amato dai coreani
UNESCO recognizes kimjang, Korean culture of sharing
Dec 11, 2013
Korea’s kimchi, a range of seasoned vegetable dishes, and kimjang, the making and sharing of kimchi, have both recently received much international recognition as UNESCO has inscribed kimchi and kimjang onto its list of intangible cultural heritage items. UNESCO made the final decision at its Intergovernmental Committee for the Safeguarding of Intangible Cultural Heritage, held from Dec. 2 to 7 in Baku, Azerbaijan.
“Kimjang allows Koreans to practise the spirit of sharing among neighbours, while promoting solidarity and providing them a sense of identity and belonging; Inscription of Kimjang could contribute to the visibility of intangible cultural heritage by enhancing dialogue among different communities nationally and internationally that practise foodways that similarly make creative use of natural resources,” said the committee in regard to its decision to add kimchi and kimjang to the list. Thanks to the decision, Korea now has a total of 16 items on UNESCO’s list of intangible cultural heritage items, including taekkyeon, a traditional martial art, and the weaving of mosi, or ramie, a fine hemp-like fiber from the Hansan region.
Kimjang, one of Korea’s representative food cultures, has recently joined the UNESCO list of intangible cultural heritage items. The above photo shows a large-scale kimjang event held last year. (Photo courtesy of the Cultural Heritage Administration)
According to Korean dictionaries, kimjang is, “the making or the result of making a large amount of kimchi, dongchimi, a juicy radish kimchi, or kkakdugi, a pickled radish kimchi, before or soon after the onset of winter, allowing people to eat from winter to spring.” The onset of winter is known as ipdong. It is the 19th division of the 24 solar divisions of the lunar calendar year. It represents the start of winter and in 2013 ipdong fell on November 7.
As can be seen from this meaning, the word ”kimjang” itself infers a lot of human effort in order to make a large quantity of kimchi with the family in one sitting. Kimjang implies not only a big family affair that requires all members of the family to participate, but also an important event for a village where all the neighbors gather together to take part.
Though the whole family participates in kimjang, elements of kimchi preparation have traditionally fallen upon the female members of the household. Ways to make and store kimchi can vary according to region, but before winter comes, in every region, mothers and mothers-in-law make kimchi and pass down their own, individual recipes to their daughters and daughters-in-law, from generation to generation. Traditionally, kimjang kimchi, or kimchi made during kimjang, is stored in jars and then preserved by interring the jar almost entirely underground. Women would make the kimchi while the men usually did the digging. On kimjang day, women offered boiled meat and made geotjeori to share with the others who helped with the kimjang procedure. Geotjeori is a fresh cabbage kimchi salad made with radish and cabbage mixed with salted fish, chillies and other spices.
Kimjang kimchi, or kimchi stored underground after being made during kimjang, is delicious and offers a tasty chewy texture throughout the winter. (Photo courtesy of the Cultural Heritage Administration)
It is not precisely known when exactly Koreans started making kimchi, but, Yi Gyu-bo (1168-1241), a renowned literary servant and scholar during the Goryeo Dynasty (918 – 1392), wrote, “They dip the leaves of white radish in paste to prepare for summer and salt them to prepare for winter.” This was written in his Donggukisanggukjip (東國李相國集), a large collection of poems and essays composed of 13 books and 53 volumes. In the Dongguksesigi (東國歲時記), a book about Korean seasonal customs, Hong Seok-mo (1781-1850), a scholar from the Joseon Dynasty (1392-1910), wrote in 1849 that, “Making soy sauce in spring and doing kimjang in winter are some of the most important yearly plans of the Korean household.”
Among the thousands of varieties of kimchi, many people regard kimjang kimchi as the best. Any kind of kimchi stored underground retains its freshness with a unique chewy texture and deep flavor, as it is stored at a consistent, cool temperature despite the extremely cold weather aboveground. So for many people, the first thing they have in mind when they think of kimchi is kimjang kimchi, mostly made with napa cabbage. For this reason, fridge manufacturers have introduced a special line of kimchi refrigerators or incubators: an appliance equipped with separate sealed storage drawers and controls that can recreate the ideal underground conditions needed to mature, ferment and store kimjang kimchi at the right temperature and pressure.
Tourists pose for a photo during the Korea Kimchi Culture Festival 2013 held at Gyeongbokgung Palace in central Seoul on December 5. (Photo: Jeon Han)
In the past, most people made their kimchi during kimjang, as most of them lived with a large number of family members, often with more than three generations under one roof. But today, a growing number of people purchase kimchi rather than make it themselves during kimjang, as the size of individual households has gotten smaller. Such trends can be clearly seen in Seoul and other metropolitan areas.
In contrast to this urbanization, however, according to a survey from the Nonghyup Economic Research Institute released on December 5, more than 41 percent of the 500 respondents from the metropolitan area said they will make their own kimjang kimchi. Also, more than 25 percent said they would receive kimjang kimchi from their relatives or family members. This shows that more than 66 percent of respondents consume kimjang kimchi. Breaking it down by age, 83 percent of respondents aged over 50 said they make kimjang kimchi themselves. This shows that many people still prefer the consumption of kimjang kimchi. In light of this, many firms and communities make kimjang kimchi for needy neighbors and welfare recipients as a way to share the love at the end of the year.
By Jeon Han, Yoon Sojung
Korea.net Staff Writers
hanjeon@korea.kr
Students enjoy making kimchi during a kimjang event held at the Namsangol Hanok Village in Seoul in May 2013. (Photo: Jeon Han)
E il Giappone, sempre a fine 2013, ha ottenuto il bollino Unesco per la sua cucina tradizionale
Giappone – Cucina tradizionale diventa patrimonio Unesco
Quando si tratta di tradizioni gastronomiche, noi italiani, mediamente, ci sentiamo imbattibili, se non fosse per quel lieve e fastidioso senso di inferiorità verso i francesi. Ma la nostra cucina, ancorché rispettata e decisamente di tendenza negli ultimi decenni, non è l’unica a ottenere riconoscimenti.
Qualche mese fa, quasi alla fine del 2013, l’Unesco, attraverso il Comitato ad hoc, ha inserito il washoku nella lista dei patrimoni immateriali (Per la Francia e per l’Italia il riconoscimento era arrivato nel 2010, con l’inclusione, rispettivamente, dell’arte culinaria francese e della dieta mediterranea).
Wa significa ‘giapponese’ e shoku ‘cibo’, ha il suo punto di forza nella freschezza delle materie prime e nella natura salutare delle preparazioni. Non si tratta di ricette sofisticate e irrealizzabili, ma dei piatti semplici che compongono l’alimentazione casalinga e che, tuttavia, secondo alcuni, rischiavano l’estinzione.
Chef ed esperti del settore gastronomico giapponese hanno infatti premuto affinché si arrivasse alla candidatura del washoku, nel timore che, con il passare del tempo, certe abitudini potessero scomparire del tutto se non debitamente protette.
Le giovani generazioni, infatti, privilegiano le cucine occidentali di alto livello o le catene di fast-food, il consumo annuale di riso è crollato del 17 per cento negli ultimi 15 anni, mentre la domanda di carne ha sopravanzato quella di pesce già dal 2006.
Ma c’è anche una motivazione più marcatamente commerciale: il tentativo di riaffermare la qualità dei prodotti dell’agricoltura e della pesca giapponese, la cui reputazione è stata gravemente compromessa dall’incidente di Fukushima.
Le esportazioni di prodotti sia di terra che di mare sono crollate nel 2011 e nel 2012 per tornare a migliorare nel 2013 (+22 per cento rispetto all’anno precedente). Secondo l’Agenzia giapponese per la Pesca i valori di contaminazione di pesci e acque sono ormai confortanti: se subito dopo la tragedia del 2011 il 53 per cento del pesce controllato mostrava livelli di radiazioni superiori alla soglia di sicurezza di 100 becquerel per chilogrammo, e nel 2012 i valori erano dimezzati, a fine 2013 solo il 2.2 per cento del campione risultava contaminato.
Ma gli scambi con Cina e Sud Corea, i maggiori partner commerciali del Giappone, non sono tornati ai valori pre-Fukushima a causa del persistere delle restrizioni per ragioni di sicurezza.
Il governo giapponese, dal canto suo, non fa altro che ripetere che gli alimenti provenienti dalla prefettura di Fukushima sono sani e affidabili. Mentre il premier Abe si è dato come obiettivo quello di raddoppiare le esportazioni alimentari per raggiungere ricavi pari a 1 trilione di Yen entro il 2020.
Appuntarsi l’onorificenza dell’Unesco – la ventiduesima per il Giappone – può dunque tornare utile. Come rileva il New York Times, il Giappone è ancora un paese “fissato” con il cibo, ma sempre più cuochi si rivolgono alle tradizioni occidentali, e il consumo di prodotti pronti da mangiare è in costante aumento.
Il riconoscimento dell’Unesco arriva nel momento giusto – a patto però che non si verifichi un’eterogenesi dei fini, banalizzando e commercializzando proprio quel patrimonio immateriale che si voleva esaltare e proteggere.
[Pubblicato su Pagina99; ]
* Benedetta Fallucchi, dopo una parentesi di attività nel mondo editoriale, si è dedicata al giornalismo. Collabora con alcune testate italiane e lavora stabilmente presso la sede di corrispondenza romana dello Yomiuri Shimbun, il maggiore quotidiano giapponese (e del mondo: ben 14 milioni di copie giornaliere).
La candidatura dell’Italia per la pizza napoletana sembra priva di basi concrete per un riconoscimento perché non esistono disciplinari per la lavorazione della pizza, come ho spiegato in La pizza italiana patrimonio dell’Unesco?
Unesco, Italia candida Pizza napoletana e falconeria
Come patrimonio culturale immateriale
Ansa 27 marzo 2015
ROMA – La pizza napoletana è la candidata italiana per l’ingresso alla Lista del Patrimonio Immateriale dell’Umanità Unesco, mentre la falconeria va a Parigi come candidata transnazionale. Lo apprende l’ANSA. Nell’anno di Expo, la Commissione Italiana per l’Unesco, ha così scelto l'”L’Arte dei Pizzaiuoli Napoletani”, simbolo del made in Italy nel mondo. Si tratta del primo “step”, spiega il legale Pier Luigi Petrillo, estensore del dossier di candidatura L’Arte dei Pizzaiuoli Napoletani, necessario per iniziare il negoziato internazionale che coinvolgerà 163 Stati. Dal 1 Aprile 2015 al 15 novembre 2016 i valutatori indipendenti dell’Unesco saranno chiamati ad esaminare le due candidature italiane, ed entro novembre 2016 decideranno se riconoscere o meno la pizza e la falconeria come patrimonio dell’umanità. Ad oggi la Lista contiene 6 elementi italiani
La pizza? Ognuno, nell’universo della ristorazione, la fa come vuole, senza controlli.
Provocatoriamente si potrebbe dire:
meglio una pizza industriale fatta da un’industria veronese come Rana che un riconoscimento ad un’ universo senza regole come quello delle pizzerie.
Con tutto il rispetto per Coldiretti, Gino Sorbillo e Luciano Pignataro che lo stanno promuovendo.
Oppure, ancor meglio della pizza industriale, basterebbe promuovere dei biscotti artigianali, abbinati ad un sito Unesco, come insegnano i francesi della Mere Poulard.
Inoltre iniziative di questo genere creano confusione in un momento molto delicato per le nostre denominazioni come Dop e Igp , in seno alle negoziazioni di libero scambio USA- UE (TTIP).
Prima stesura: 28 ottobre 2013
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