Nell’Ottocento, l’impiego dei detenuti in attività lavorative è sempre stata considerata un’imprescindibile esperienza rieducativa e un obbligo moralizzatore, oltre che un modo per rimborsare le spese sostenute dallo Stato (anche perché la “gratificazione” data ai detenuti per il loro lavoro era ben poca, e commisurata a seconda della posizione giuridica), nonché per fornire al carcerato i mezzi per il suo futuro reinserimento nella società civile e nel mondo del lavoro.
Anche se, in generale, si tratta più di teoria che di pratica (i detenuti inoperosi sono moltissimi, ed è ancora robustamente diffusa, anche a livello legislativo, l’opinione che il lavoro carcerario faccia parte della pena quale espiazione della colpa e non mezzo di redenzione dalla stessa, con tutto quanto ne consegue), ci sono diversi esempi in cui il concetto più “moderno” veniva applicato.
Quando, nei primi anni postunitari, i Caprotti costruirono il primo grande stabilimento nel vero senso del termine, ritrovandosi infine con un salone per la tessitura da 1400 mq oltre ad altri locali, inizialmente non avevano del tutto chiaro cosa metterci (curioso parallelo di una situazione che, quasi un secolo dopo, avrebbe vissuto mio padre Bernardo davanti ai superstore di Esselunga, situazione che risolsi io!).
Probabilmente pensano ad una sorta di “manifattura accentrata”, ossia i telai che invece di essere sparsi per la campagna presso le varie famiglie contadine vengono riuniti in un solo luogo, specialmente per quanto riguarda la produzione delle tele più pregiate, e a tal fine acquistano diversi macchinari rivolgendosi a vari produttori, tra i quali anche il carcere milanese di San Vittore il cui direttore, Eugenio Cicognani, è personalmente appassionato e ideatore di un telaio a regolatore di nuova concezione, costruito dai detenuti (ROMANO, I Caprotti, pp. 22 e 70 sgg.).
Carlo Caprotti si serve più volte della manodopera del carcere. Il Cicognani ad esempio gli scrive nel gennaio del 1868 “di avere mezzo finiti 200 regolatori i quali aspettano l’ultimo battesimo: e il battesimo consiste in una modificazione la quale dovrebbe renderli tanto leggeri onde il tessitore nemmeno s’accorga d’averli attaccati alla barra del suo telaio. (…).
L’esperimento dovette andare bene, visto che pochi mesi dopo, il 25 marzo, informava il Caprotti di essersi accordato con Leopoldo Henrim di Sestri Levante, uno dei primi fornitori della nuova Manifattura in fase di meccanizzazione, per la rifinitura di altri 100 regolatori, in modo da garantire il perfetto funzionamento della macchina ordinata.
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Fonti:
Albiate, Villa San Valerio, Archivi San Valerio, Archivio Manifattura Caprotti
Bibliografia:
R. ROMANO, I Caprotti. L’avventura economica e umana di una dinastia industriale della Brianza, Milano 20082 .
R. GIULIANELLI, Chi non lavora non mangia. Le manifatture nelle carceri italiane fra Otto e Novecento, in Ministero della Giustizia, “Rassegna penitenziaria e criminologica”, n. 3/2008, pp. 83-106.
G. CAPROTTI, Le ossa dei Caprotti. Una storia italiana, Milano, 2023