Non basterà un vaccino a salvare il mondo dal rischio delle pandemie. Quando la ricerca avrà ottenuto «l’antidoto» al Covid-19, rimarrà ancora la probabilità di avere nuove epidemie nei prossimi anni se non si modificano gli impatti dell’industria umana sull’ambiente. È un aspetto, questo, che trova consenso quasi unanime nel mondo della ricerca scientifica. In ballo ci sono le regole della sostenibilità ambientale: la deforestazione, le emissioni di Co2, l’eccessiva produzione di plastica, la riduzione della biodiversità sono alcuni dei fattori che favoriscono l’esplosione di virus come il Covid-19 che ha messo in ginocchio il sistema mondiale. Gran parte di questi concetti li ripete da tempo (ben prima dell’era coronavirus) Emmanuel Faber, 56 anni, ceo mondo di Danone, colui che ha espresso in 4 parole la visione della sua multinazionale: «C’è solo un pianeta, c’è solo una salute». Concetti che ribadisce a L’Economia nella sua prima intervista concessa a un media italiano.
Business
«Il primo trimestre del 2020 sarà a lungo ricordato come il tempo di una pandemia senza precedenti — afferma Faber — che potrebbe cambiare il modo in cui viviamo e facciamo affari da molto tempo. Nel tentativo di limitare il suo impatto immediato sulla salute delle persone, i governi hanno intrapreso azioni di blocco che si sono tradotte in ondate di congelamenti temporanei dell’offerta e della domanda. In questo contesto, ci siamo concentrati sulla continuità aziendale garantendo la massima protezione a tutti i 100 mila nostri dipendenti, con una copertura sanitaria rinforzata, garanzia dell’impiego e premi per i dipendenti dei siti produttivi; predisponendo condizioni di favore per le piccole imprese fornitrici; infine impegnandoci in un programma di donazioni alle persone e alle comunità più bisognose». La pandemia ha avuto un primo impatto con il business già misurabile e il gruppo Danone, che nel 2019 ha fatto registrare un fatturato di 25 miliardi di euro, ha raccolto i primi dati. « Il primo trimestre ha fatto segnare effetti immediati e significativi sullo spostamento della domanda — conferma Faber — le nostre vendite trimestrali sono aumentate del 4% su base omogenea, una crescita più forte di quanto ci aspettassimo, con un ribasso della Cina compensato dal rialzo in Europa e Nord America a marzo. Ma questo non è il momento di piani industriali: si guarda a scenari globali cercando di avere visione di ciò che ci aspetta».
Impegno
Danone ha sempre avuto grande sensibilità per il tema della sostenibilità e per il futuro del pianeta. Al mondo adesso viene chiesto uno sforzo in più: i danni ambientali hanno favorito la diffusione del virus. Danone ha già preso impegni in tal senso: saranno potenziati? «Certamente — afferma deciso il ceo della multinazionale francese —. I nostri marchi stanno lavorando duramente per ottenere la certificazione B Corp accordata a quelle società che si impegnano a rispettare standard come performance, trasparenza e responsabilità e operano in modo da ottimizzare il loro impatto positivo verso i dipendenti, le comunità in cui operano e l’ambiente. In Italia abbiamo già colto l’opportunità data dalla legge e lo scorso febbraio ho annunciato che saremo pronti a essere certificati una B Corp a livello globale entro il 2025 ». Adesso però non si parla più soltanto di innovare prodotti ma di immaginare un nuovo mondo del lavoro e ridisegnare dinamiche e competenze. «È uno degli aspetti essenziali. Ci saranno enormi interruzioni nel mercato del lavoro e nel periodo in questione, oltre a garantirci il futuro del business, dobbiamo anche assicurarci di pensare al futuro dei posti di lavoro e di come stiamo supportando le persone nella ricerca del giusto posto per loro nel futuro del mondo ».
Biodiversità
Molti economisti sostengono che la pandemia porterà un nuovo assetto economico, con un arretramento della globalizzazione. Questo potrebbe valere anche nell’alimentare. È possibile immaginare che una multinazionale come Danone inizi a produrre per singoli Paesi e con materie prime territoriali? «Siamo partiti da una visione che si chiama One Planet One Health: c’è solo un pianeta e c’è solo una salute che è connessa e unita. La crisi è una “epifania”, in un certo senso, di quella visione: siamo interamente interconnessi e la nostra salute dipende dalla salute del pianeta. Se parlo di Europa, sono sicuro che dobbiamo ripensare il sistema alimentare a livello locale. Il cibo è più di una semplice alimentazione, è più delle calorie. Il cibo è una tradizione, una cultura umana e le culture umane sono piene di diversità e ricchezza di tradizioni. Dobbiamo ricominciare da questi valori perché penso che sia un aspetto fondamentale della sicurezza alimentare per il futuro. A tal proposito sono molto orgoglioso di ciò che ha fatto Mellin in Italia. Due anni fa, hanno iniziato la loro attività di produzione di alimenti biologici per bambini con il marchio “viaggio d’Italia”, che è una raccolta di materie prime che provengono da diverse regioni d’Italia. È un esempio di ciò che dobbiamo promuovere di più in ogni Paese»
Globalizzazione
Uno scenario che ipotizza un arretramento della globalizzazione richiede un riassetto alternativo. È ipotizzabile? « Non penso che la pandemia porti anche la fine della globalizzazione. Forse è la fine del quadro molto aperto che abbiamo creato: alcuni credevano che la globalizzazione fosse solo business senza responsabilità connesse. Penso che l’epidemia ci offra invece una grande lezione: se oggi in Francia una persona non rispetta il lockdown e infetta qualcuno che torna in Cina, il virus torna in Cina. Quello che faccio qui, il modo in cui mi comporto qui, ha un impatto dall’altra parte del mondo. E non è mai stato così chiaro: il virus ha preso i nostri aerei, i nostri treni, le nostre auto, ha usato gli errori del nostro business per colpirci. Ciò significa che non ci sarà una soluzione a lungo termine senza una grande cooperazione mondiale. Non so come chiamare questa cooperazione, ma deve essere un tipo di globalizzazione molto diverso da quello che è oggi». L’obiettivo ideale resta ancora quello di rendere l’alimentazione accessibile al maggior numero possibile di persone. Ma senza danneggiare il pianeta. Possibile? «È la sfida più complicata. L’agricoltura intensiva è sbagliata e il cibo sano non può essere un lusso. Da qualche mese stiamo tutti facendo cose a cui non siamo abituati. Questo deve farci trovare la giusta misura per un cibo accessibile a tutti e un mondo sostenibile».
Corriere Economia 11 maggio 2020