Media, esperti e opinione pubblica si stanno dividendo tra chi vuole continuare con il lockdown preoccupato dal contagio e chi vorrebbe aprire preoccupato per il lavoro e per il futuro delle imprese. Pochi si stanno interrogando sugli effetti collaterali di alcuni settori e delle filiere a essi collegati. Gli scaffali, ben riforniti sui lineari dei supermercati, nascondono problemi che, se non affrontati, porterebbero con sé ripercussioni pesanti.
“Comprare italiano” è un bellissimo slogan, ma è adeguato alla nostra realtà? L’anno scorso in Germania un supermercato della catena Edeka ha provocatoriamente esposto sui lineari i soli prodotti tedeschi. Quelli che avrebbero dovuto garantirne l’autosufficienza: erano vuoti.
Anche il nostro paese non è autosufficiente (produciamo, ad esempio, solo il 36% di grano tenero che serve per il pane). Siamo bravi nella trasformazione di prodotti agricoli, ma se chiudessero le frontiere oggi non avrebbe neanche la pasta (il 30% del grano duro viene dall’estero). Russia, maggior esportatore di grano al mondo, Kazakistan, Egitto, Vietnam e Serbia hanno già alzato le barriere, privilegiano le scorte per consumi interni.
C’è una grande siccità, in Piemonte è già emergenza idrica, e il cambiamento climatico avrà degli effetti pesanti sui raccolti di tutte le regioni. Manca un osservatorio dei prezzi che si basi su dati rilevati nelle aziende agricole, in quelle industriali, ma anche nella Grande Distribuzione. Il prezzo del grano è salito del 10% nelle ultime settimane, ma chi controlla che succede sugli scaffali? La logistica ha subito degli incrementi spaventosi e mancano lavoratori in agricoltura.
E’ arrivato il momento di “approfittare” del Covid-19 per provare a cambiare i rapporti tra Grande Distribuzione, mondo della produzione e della trasformazione. Crediamo che convenga iniziare proprio dalla filiera agricola (ortofrutta, allevamenti, latte) perché il Covid-19 sta risvegliando pericolosi “istinti autarchici” non solo in Italia, ma in tutto il mondo.
In queste settimane la Grande Distribuzione e i produttori di beni alimentari hanno dato prova di tenuta e sono stati tra coloro che hanno aiutato il Paese, ma l’hanno fatto più per scelta individuale che sotto lo stimolo e la guida delle proprie rappresentanze. Muoversi, ognuno per sé, potrebbe non bastare in futuro. Agricoltura, Sindacati, Produzione e Distribuzione devono sedersi attorno a un tavolo per affrontare e prevenire le criticità che iniziano ad affiorare.
Bisogna provarci non tanto per rimettere in campo un consociativismo di vecchio conio che annulli la libera concorrenza, ma proprio perché la situazione richiede regole, modalità di funzionamento e prassi che devono essere riviste.
I rischi sono evidenti e gli obiettivi prioritari sono sei:
1. Evitare mancanza di merce
2. Tenere l’inflazione sotto controllo
3. Evitare lo sfruttamento delle persone nei vari settori della filiera
4. Assicurare sicurezza alimentare
5. Difendere la filiera italiana senza sconfinare nell’autarchia e boicottaggio preventivo di tutto quello che viene dall’estero
6. Risolvere velocemente il problema della manodopera, usando eventualmente anche percettori di sussidi
Bisogna rendersi consapevoli e rendere consapevoli tutti del ruolo che ogni attore della filiera è chiamato a svolgere. A nostro parere va adottata una logica che trasforma i fornitori in partner che si fanno carico e affrontano con trasparenza i problemi, i cicli di produzione, le politiche commerciali e promozionali, l’educazione del consumatore. Aste al ribasso andrebbero evitate, sapendo che è sempre l’offerta che pilota la domanda perché il ciclo di produzione non è programmabile.
Un’impostazione di questo tipo non può essere lasciata alla buona volontà dei singoli, gli interessi economici di tutta la filiera possono ripartire da questa crisi. Alla rappresentanza il compito di tradurre con generosità e lungimiranza questa necessità.
Nuccio Caffo, Amaro del Capo, ha recentemente detto che bisogna “recuperare le filiere, soprattutto quelle legate all’agroalimentare. Pensiamo per esempio allo zucchero: la produzione italiana copre solo il 15% del mercato interno e dobbiamo importarlo dalla Francia. E’ andata distrutta la coltivazione della barbabietola da zucchero, i terreni sono incolti. Dagli scarti sello zucchero si produce alcol, che oggi scarseggia, e i prezzi della materia prima sono alle stelle: nel momento del bisogno la mancanza di un’industria italiana si fa sentire”.
* imprenditori, ex ad di Esselunga ed Unes
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Foto scattata ad Albiate



