Redatto il 13 novembre, aggiornato il 25 novembre 2023
Tra i tantissimi messaggi positivi questo merita l’evidenziazione per tre motivi:
1) la visione del business e della storia di Esselunga (e non solo),
2) per lo stle (la scrittura)
3) perchè mi ha ricordato le tante coise belle fatte, tanti anni addietro, nella mia azienda.
Buongiorno caro dottor Caprotti.
Ho finalmente terminato la lettura del suo ultimo libro e, pur sapendo che le vendite stanno andando (meritatamente) molto bene e che riceverà perciò centinaia di commenti, mi sento un po’ in dovere di condividere con lei le impressioni e qualche ragionamento che mi ha ispirato.
Premesso che amo leggere la sera, prima di addormentarmi, confesso che da un certo punto in poi ho dovuto spostare la lettura prima di cena, in quanto gli argomenti trattati mi coinvolgevano e innervosivano a tal punto da impedirmi poi di prendere sonno. Perché una cosa è un romanzo o, al limite, una storia vera romanzata, un’altra la cronaca cruda e drammatica di vicende relative alla vita vissuta del narratore. In grado di sfidare la fantasia di qualsiasi scrittore o sceneggiatore di successo.
La sensazione è stata che il protagonista si trovasse in un labirinto claustrofobico, dal quale non poteva uscire a causa dei legami famigliari, della reputazione e degli interessi economici in gioco, così come dell’amore per il suo lavoro e la sua azienda, dove tutti i giorni gli venivano somministrate dosi di veleno. In tal senso ho interpretato anche l’immagine di copertina, un carrello / gabbia dalla cui breccia alla fine ha potuto finalmente uscire.
Benché da appassionato del mondo retail non mi fossero potute sfuggire le notizie susseguitesi tra il 2003 e il 2016, non mi ci ero mai soffermato approfondendo il tema in modo morboso e, pertanto, non ero preparato a quello che avrei letto.
Tant’è che se ai tempi la vicenda mi aveva colpito al punto di ispirarmi la scrittura di una storia per certi versi simile, questa non si avvicina nemmeno lontanamente alla complessità della situazione e alle ricadute di natura psicologica.
Del libro ho apprezzato molte cose:
– La ricca documentazione, che tradisce le origini ‘da storico’ dell’autore.
– L’atmosfera dell’alta borghesia lombarda all’interno della quale si sono srotolati gli alberi genealogici delle famiglie materna e paterna.
– La descrizione dei famigliari, ognuno dei quali reso speciale a modo suo.
– La semplicità con cui si spiegano i processi alla base del funzionamento di una grande azienda di distribuzione e le innovazioni introdotte nel corso degli anni in cui ha potuto lavorare in Esselunga.
– L’affresco con cui dipinge la realtà di una grande impresa padronale italiana, con tutti i suoi punti di forza ma, anche, le tante aree di miglioramento. Paradossalmente in totale antitesi (*) rispetto all’organizzazione delle imprese americane, da cui pure trae origine. Che nel marketing ha faticato a fare il passaggio dall’orientamento al prodotto a quello al mercato e, infine, al cliente. E che sul fronte dell’organizzazione è stata più vicina al modello del taylorismo che non all’evoluzione realizzata già a partire dagli anni Settanta nei paesi nordici e poi proprio negli Stati Uniti, dove tanta enfasi si è data alla condivisione delle informazioni, al coinvolgimento nei processi decisionali, alla motivazione delle persone. Una rivoluzione da lei portata non a caso di ritorno dall’ esperienza a Chicago e che, come ogni rivoluzione, ha generato una reazione uguale e contraria da parte di chi aveva motivo di temere il cambiamento.
(*) ovviamente Filippo si riferisce alla gestione paterna. questo vale anche per il taylorismo che si è sempre concretizzato in un forte ed ammirevole controllo dei costi.
A tal proposito, devo purtroppo ammettere, dopo averci lavorato a stretto contatto per oltre trent’anni, che le imprese distributive italiane del largo consumo di maggior successo sono quelle padronali, come Esselunga, Pam Panorama, Iper Unes, Bennet e tutte le altre consociate nelle varie sigle di quella che una volta si chiamava DO. E il rammarico non deriva certo dal fatto che sia esterofilo, quanto dalla constatazione che le aziende straniere, modernamente organizzate, dotate di manager di qualità, attrezzate con mansioni ben definite, flussi informativi diffusi e processi decisionali condivisi non sono riuscite a operare sul mercato in modo altrettanto efficace.
Certo, il retail è locale, e se ne è accorta anche Esselunga quando è entrata in territori nuovi e ha dovuto imparare a declinare le leve del retail mix per adeguarsi al mercato. Ma proprio la natura dell’imprenditore, con il suo intuito, la capacità di instaurare relazioni con il mondo della politica, di radicarsi nelle comunità locali e, talvolta, di azzardare qualche scorciatoia non proprio legale, rappresenta uno straordinario fattore vincente. E anche il principale limite. Perché, se facessimo il censimento delle aziende padronali retail del largo consumo, temo che scopriremmo che almeno l’80% ha al vertice degli ottuagenari. E non mi riferisco ai presidenti onorari, che si fanno vedere in occasione della cena aziendale. Penso a persone che vanno in azienda ogni mattina e prendono le decisioni più importanti, se non tutte. Grandi imprenditori che non solo non sono stati in grado di coinvolgere, motivare e delegare ai figli. Ma che spesso riescono a bruciare i loro amministratori delegati, i direttori generali e tutti gli altri riporti diretti ogni tre o quattro anni, nutrendo in generale un senso di diffidenza nei confronti di chi ha studiato e non ha fatto la gavetta partendo dal rifornimento degli scaffali.
Mi sono imbattuto in genitori rassegnati, che hanno venduto una volta compreso che i figli non avevano la vocazione per proseguire nel loro lavoro, o dopo aver deciso che non fossero all’altezza. Per il resto, si tratta di uno stagno dove prosperano soprattutto coloro che sono dotati di un fortissimo senso della diplomazia, di grande pazienza e scarsa voglia di scontrarsi con chi comanda.
Le eccezioni sono poche e, per questo, fanno notizia e generano qualche residua speranza.
In questo contesto, il suo caso è stato senz’altro speciale, in quanto ha visto la contrapposizione tra due Caprotti, ciascuno portatore nel proprio DNA di un carattere forte e di indubbie capacità che, come dice lei stesso, potevano essere complementari. Due personalità forti che credo, a modo loro e nonostante tutto, si siano volute bene fino alla fine.
Le auguro che la pubblicazione del libro rappresenti lo spartiacque tra un passato da sotterrare una volta per tutte e un futuro foriero di nuove sfide e ricco di tante soddisfazioni. Magari una delle prossime pubblicazioni ci racconterà di belle imprese realizzate insieme ai suoi figli, di cui nel libro si parla poco, immagino anche per motivi di riservatezza. Suggerisco già un titolo: Il cuore dei Caprotti.
Con stima
Filippo Genzini, consulente, manager e scrittore
Ho conosciuto Filippo trent’anni fa, quando lavorava per IRI – Infoscan (oggi Circana), quando stavamo fondando il marketing informativo di Esselunga.

Ha lavorato in Nielsen, Mondadori, IRi e Catalina.
Oggi è partner di ad Mirabilia.
Ha pubblicato 15 romanzi gialli e ne ha pronti un’altra decina (!).



