L’intervento di Giuseppe Caprotti all’Università del Piemonte Orientale, Dipartimento di Studi per l’Economia e l’Impresa di Novara il 10 maggio 2024. Grazie alle Prof.sse Anna Chiara Invernizzi e Barbara Dellera.
TRASCRIZIONE NOVARA UNIVERSITA’ UPO – 10 MAGGIO 24 (ultimo aggiornamento del 9 ottobre 2024, grazie a Eleonora Sàita)
Prof. Anna Chiara Invernizzi
Il dottor Caprotti ci presenterà innanzitutto il suo libro che è uscito nell’ottobre 2023, “Le ossa dei Caprotti”, di cui vi avevo già parlato sommariamente, ma in realtà è qui anche perché è stato è un manager un po’ sui generis direi, che nasce con una formazione umanistica storica – in particolare si laurea all’università Sorbona di Parigi in storia contemporanea – e poi diventa un manager. Quindi ecco, io lascerei però parlare il dottor Caprotti, veramente un foglio bianco per disegnare questo incontro di oggi come lui gradisce, e dopodiché magari apriremo un dibattito. Se voi avete delle domande sono sicuramente ben accolte. Anche la professoressa Barbara Dellera, che è nostra collega di Marketing nella sede di Vercelli, potrà interloquire col dottor Caprotti per fare un quadro un po’ generale di quella che è stata la sua esperienza e la sua professionalità.
Grazie innanzitutto, ancora grazie a voi per l’opportunità
Prego.
Allora, innanzitutto il libro nasce, proprio come diceva la professoressa, dalla voglia di chiarire una storia su cui si è sentito di tutto e di più, nel senso che per anni ho visto persone della famiglia ma anche estranee alla famiglia che una mattina si alzavano e spiegavano come era nata l’azienda, come era strutturata la famiglia, le dispute, i successi, la qualunque, quindi mi sono un po’ stufato a un certo punto e ho deciso di scrivere questo libro. Qualcuno mi ha detto l’altro giorno ma perché l’ha scritto dopo che suo padre è mancato? Io ho vissuto – a parte l’esperienza in azienda dove sono stato 20 anni – ho vissuto poi una vicenda molto brutta, familiare, legale sia penale che civilistica, che è durata dal 2004 al 2020, io lo chiamo un po’ il mio lockdown, un lockdown abbastanza lungo anche perché subito dopo si è scatenato il Covid e quindi il lockdown si è prolungato, per me almeno, quindi ho avuto una cosa molto molto pesante per cui non potevo assolutamente scrivere, qualsiasi cosa non era possibile. Poi soprattutto io avevo ben chiaro che quello che veniva raccontato era assolutamente falso o comunque trasformato, solo che al pezzo della famiglia mancava un qualcosa, secondo me uno scoop che cambiasse completamente la luce. Questo libro mi mancava. Lo spunto importante è arrivato nel 2019, quando mi sono interessato a capire le origini di Esselunga e ho incontrato il primo presidente di Esselunga, che era un italiano, si chiama Marco Brunelli, che è tuttora vivo e che è stato, diciamo, uno dei fondatori italiani dell’azienda.
L’azienda è stata fondata da Nelson Rockfeller e dagli azionisti minoritari italiani, quindi lui aveva il 51% e gli italiani avevano il 49%, e lui cosa mi ha detto? Ha detto una sola parola, un nome: Angleton. E io ho detto ma cosa mi sta raccontando quest’uomo, ovviamente non l’ho detto a lui ma l’ho detto a me stesso, poi sono andato a vedere. Questo signore è stato un uomo del controspionaggio statunitense, James Hugh Angleton. Durante la Seconda Guerra Mondiale – lui aveva già vissuto in Italia precedentemente, a Milano -, si è arruolato, è diventato un colonnello del controspionaggio, quindi aveva un ruolo abbastanza importante, dopodiché è rientrato nei ranghi ed è diventato un uomo della Camera di Commercio degli Stati Uniti, sempre a Milano. Suo figlio [James Jesus] è interpretato in un film di De Niro [con protagonista] Matt Damon, si chiama The Good Shepherd ed è [la storia] del capo del controspionaggio mondiale della CIA. Quindi una “dinastia”, diciamo, del controspionaggio. Gli americani avevano quindi un approccio – erano diciamo un po’ scettici sull’Italia, l’Italia era un paese con un partito comunista molto forte. Rockfeller aveva fondato questa società, che poi fonderà Esselunga nel 1957, quindi subito dopo la guerra, e a un certo punto piano piano si guarda intorno e cerca un paese in Europa dove sviluppare dei supermercati e traccia il controspionaggio per capire chi sono i soci possibilmente affidabili, ecco, i soci non comunisti, e prima contatta nel ‘55 Marco Brunelli. Nel ‘56 il futuro amministratore delegato dell’azienda, che è un americano che si chiama Boogart – non come l’ attore ma con due o – viene in Italia e verifica che sia un paese interessante dal punto di vista economico, poi valutano i rischi politici e nel ‘57 fondano l’Esselunga. Di fatto, però, il libro prende spunto ben prima.
Noi, eh noi come famiglia veniamo dal tessile (a parte che eravamo agricoltori e proprietari di terreni agricoli prima di entrare nel tessile), però noi veniamo dalla prima rivoluzione industriale e questo spiega – un attimo e andiamo avanti, vado avanti con questa chart, spiega due cose del libro: una è la copertina, al di là del carrello squarciato che è un’idea di un’agenzia di Milano, questo sotto è un tessuto, è un tessuto dell’azienda di famiglia. È un tessuto perché noi dal primo Settecento al 1957 e anche dopo abbiamo avuto un’azienda tessile che faceva cotone, faceva cotone per le camicie (peraltro lo stabilimento esiste ancora e io ci abito vicino). Praticamente il secondo spunto interessante secondo me è il titolo: le ossa sono un po’ il fil rouge di questo libro; io vivo appunto ad Albiate Brianza, e ho un santo, un santo che ho ereditato dalla famiglia da cui i Caprotti hanno comprato la casa. San Valerio non è un “pezzo” di santo, è un santo intero, è una salma proprio con tanto di paramenti e quant’altro, però a parte questo – questa è la chiesa di San Bernardino alle Ossa a Milano, dove papà ci portava quando eravamo piccoli, a 7-8 anni, ed è una cosa che mi ha colpito molto perché sinceramente un padre che porta i figli a vedere una chiesa barocca con tutti i teschi – questi sono teschi e ossa – è qualcosa di molto forte, ecco; da lì ci sono anche un sacco di episodi nel libro che parlano di cimiteri e quant’altro – andiamo avanti veloce perché, ecco…poi magari se avete domande ve le faremo [fare] per chi non va via, perché so che dovete andare via. ma per chi non va via alla fine lasceremo le domande su quello che ho appena detto.
Volevo parlarvi della parte economica, che forse è quella che sicuramente vi può interessare di più, almeno così ho pensato, ecco, ed è descritta nel libro. Ecco il logo della prima dell’azienda. L’azienda non nasce come Esselunga, nasce proprio solo il logo. Il logo viene creato da un grafico svizzero famosissimo che si chiama Max Huber, che peraltro se non sbaglio ha fatto anche il logo di altre aziende molto importanti in Italia [ es.: Rinascente].
Andiamo avanti. Ecco quello che viene descritto nel libro nella parte economica perché questa è una storia che nella realtà parla della famiglia, parla della storia economica dell’Italia ma anche di vicende molto personali. Si parla della marca. La marca è quello che noi come figli che siamo entrati diciamo negli anni ’80 abbiamo cercato di consolidare, cioè siamo partiti dal marchietto che abbiamo visto prima. Nostro padre ha fatto sicuramente [del]le cose fantastiche e geniali, [ma] ha seguito l’impronta degli americani; gli americani hanno fatto grande, tra virgolette, già l’Esselunga precedentemente a nostro padre, per esempio hanno puntato sulla qualità, hanno puntato sui prezzi, sulla convenienza. Avevamo – e abbiamo, credo che abbia ancora l’azienda, con cui peraltro io non ho più rapporti, questo lo preciso – avevamo degli stabilimenti interni perché negli anni ‘50 era difficile trovare i prodotti, era difficile trovare chi ci rifornisse, quindi [mio] padre prosegue il cammino degli americani andando anche alla fonte.
[Musica]
Cioè, negli anni ‘50 si comprava ai mercati generali, lui taglia questo passaggio e va a comprare direttamente dai fornitori, dai produttori, e questo è un passaggio molto importante. Questo è il posizionamento che io ho dato nel 1999: io ho lanciato personalmente la marca biologica di Esselunga prendendo in contropiede tutto il mercato perché avevo posizionato l’Esselunga su varie fasce di mercato. Avevamo una fascia di mercato che era quella coperta da Fidel (adesso, oggi si chiama Smart ma avevamo dei prodotti di discount), poi avevamo i prodotti Esselunga e poi ho lanciato questa marca Esselunga Bio. Come l’ho fatta la marca? Lo vedremo anche più avanti, ma l’ho fatta da una parte portando dei nuovi servizi, dei nuovi prodotti e anche facendo delle negoziazioni molto forti con fornitori importanti. Questi nomi non sono messi a caso: con, per esempio, la Coca Cola siamo finiti in una disputa pesante con l’Antitrust, che abbiamo vinto; loro hanno fatto ricorso al TAR, poi hanno fatto ricorso al Consiglio di Stato, hanno perso e sono stati multati. Diciamo che questa è un po’ una chart oltre che una negoziazione, rispettateci come distributori e dateci le condizioni che chiediamo, perché quando io negli anni ‘80 ho preso in mano la parte commerciale, sembra paradossale ma avevamo una gran qualità che era stata implementata da mio padre – e dagli americani prima -, una grande qualità dei prodotti ma sulle negoziazioni eravamo abbastanza deboli ed eravamo discriminati, lo constatiamo alla fine degli anni ’90 inizi degli anni 2000 perché fondiamo una centrale di acquisti [ ESD ] che comprava per 4 miliardi dell’epoca al costo, quindi comprava dai fornitori che vi ho citato ma ce n’erano tanti altri, e entrando nella centrale di acquisti abbiamo visto le condizioni di acquisto dei nostri partner che entravano con noi nella centrale, su molti eravamo, come dire, discriminati, cioè avevamo meno contributi, meno soldi, meno marginalità (dopo magari entriamo nel merito di cosa vuol dire marginalità ma vado veloce per chi dovesse, ripeto, andare via).
Cosa abbiamo fatto? Abbiamo fatto tante cose innovative. Questa la chiamiamo isola: è un banco che si mette davanti alla Gastronomia, che c’è ancora oggi. Magari sembra banale ma all’epoca non c’era, così come in Esselunga non era possibile comprare una pera o una mela, cioè eravamo costretti, anche come clienti, a comprare quattro mele o un sacchetto di mele. Abbiamo avuto uno scontro interno molto forte che è durato tanto tempo, ma siamo riusciti a mettere una mela, una pera;
questo banco invece l’abbiamo copiato da Carrefour Francia durante un viaggio che avevamo fatto negli anni ’90; questo ormai è banale, però vale un terzo delle vendite della Gastronomia. Ancora, abbiamo fatto delle pubblicità molto innovative. Su questa ci vorrei spendere un minuto in più perché l’abbiamo fatta con l’agenzia Armando Testa che è la più grossa agenzia italiana [di pubblicità], che insomma in Piemonte dovrebbe essere abbastanza conosciuta, è conosciutissima a livello nazionale. Comunque questa è stata una cosa incredibile, cioè noi ci siamo posti come distributori di qualità e non più solo di prezzo cioè verso il basso, abbiamo gestito gli scaffali in modo innovativo. Anche questa è una cosa che oggi magari sembra banale: si chiama sistema di contabilità industriale, cioè noi con un sistema [che monitorava] i [ripiani] degli scaffali e tutta la gestione sottostante siamo riusciti a capire quali prodotti guadagnavano e quali no, [così] siamo arrivati al risultato netto di ogni prodotto.
Parlavamo di marginalità prima – cioè parlavo io di marginalità. ll margine lordo è sicuramente un buon indicatore (vedremo che lo userò ancora), però non tiene conto dei costi diretti dei prodotti. Faccio un esempio veramente, tra virgolette, stupido: l’acqua minerale perde un sacco di soldi, fa perdere all’azienda un sacco di soldi perché ha una movimentazione pazzesca, occupa degli spazi enormi e quindi già ha dei costi. Ho fatto impostare un sistema che ho portato dagli Stati Uniti, perché se parliamo di economia non si va a sensazioni, se parliamo di matematica e di economia si va a numeri, e quindi abbiamo messo sotto controllo tutto l’assortimento Ecco, abbiamo anche fatto un’altra cosa, la fidelizzazione [con la Fidaty]. Abbiamo iniziato a guardare il mercato in modo diverso – andiamo pure avanti -, abbiamo parlato di risorse umane. Abbiamo iniziato a focalizzarci su delle aree diverse rispetto alla vecchia impostazione, con un metodo completamente diverso e dei risultati diversi: abbiamo cercato di passare dall’io al noi. Cosa vuol dire: che da un’azienda padronale dove mio padre – ripeto, aveva delle qualità immense, però aveva un’impostazione molto centrata su se stesso- abbiamo cercato di arrivare al coinvolgimento dei dipendenti ma anche dei clienti, come abbiamo fatto con la carta fedeltà [e] anche altre cose, ecco, abbiamo instaurato un call center e nel 2003 ricevevamo una quantità di segnalazioni molto forte, molte erano sulla carta fedeltà (mi mancano i punti!), ma una gran parte era sui prodotti, sui servizi che davamo. Andiamo pure avanti – ecco, i servizi. Abbiamo visto prima a volo d’uccello la carta di debito, una cosa che ho introdotto, e con grande fatica, in azienda, ma do’ altri due esempi: la cassa 10 pezzi – arrivavi in fondo, avevi fatto la tua spesa, magari avevi solo il latte e dovevi litigare con gente che aveva tre carrelli pieni di roba, invece ho messo la cassa 10 pezzi -, e l’e-commerce e le consegne a domicilio.
Anche quello è stato una cosa diciamo molto innovativa, i risultati della marca Esselunga – e stiamo andando velocissimi, abbiamo quasi finito così lasciamo spazio a tutte le domande che avrete, perché a me tra l’altro fare i monologhi non è che faccia molto piacere, non mi diverte per niente. La fidelizzazione. [Con] la fidelizzazione siamo arrivati già nel 2003 al 91% del fatturato che passava attraverso la carta fedeltà, che non è proprio banale. Parlavo di qualità, convenienza e freschezza Allora, la freschezza è una parte della convenienza, sicuramente erano già state consolidate da mio padre, però con le pubblicità, con alcuni accorgimenti, come appunto già detto, nei freschi, abbiamo sicuramente implementato anche questa immagine, [che] poi qualità è qualità reale.
Ecco uno dei risultati. Questo è un estratto di una lettera – io ricevevo tutte le lettere dei clienti e rispondevo -, l’avevamo inserita in una presentazione ed ero rimasto colpito dal fatto che questo signore dicesse che era innamorato di Esselunga, scriveva a me come se scrivesse a un’entità sovrannaturale, ma non è l’unico, ce n’è una collezione. Ecco è un una relazione molto forte, molto solida [col cliente, che] è ovviamente il risultato anche di un lavoro che è stato fatto all’interno sulle risorse umane, in cui si è cercato di agevolare il personale, per esempio trovare il modo di dare più riposi, di avvicinare i direttori a dove [abitavano], [per] le cassiere trovare il modo di togliere i problemi alla schiena, e tante altre cose; ecco, il risultato è stato un terzo del fatturato proveniente dal marchio privato in cui tra l’altro Esselunga fa la parte del leone. Ma c’è un marchio di cui non ho detto niente che si chiama Naturama, che ho io rispolverato dai cassetti e ho rilanciato; è stato un “pre-biologico” perché al biologico ci abbiamo messo tanti anni ad arrivare. Prima avevamo questo marchio diciamo di filiera controllata -adesso “filiera” è un nome che è usato e abusato, però all’epoca aveva un suo perché – ecco, parlavo prima di margine lordo (qui poi se volete vi do anche altri indici), però insomma il margine è salito di sei punti e quasi sei punti e mezzo, l’Ebit, il risultato netto, tiene conto dei costi e è stato moltiplicato per due volte e mezzo Quindi c’è stata proprio una crescita molto molto forte.
Poi qua ho degli spunti sull’azienda familiare però non so se può interessare, magari risponde a qualche domanda, perché abbiamo litigato – perché questo è -, perché io sono fuori dall’azienda, ecco, questa è una risposta a un’eventuale domanda. Noi avevamo una situazione – ne parlavo ieri a un forum delle aziende familiari -, avevamo una situazione dove si faceva tantissimo però non avevamo punti di incontro non avevamo ad esempio un comitato di direzione, non avevamo dei consigli d’amministrazione seri, preparati, ad esempio io ho deciso di fare guerra alla Coca-Cola in uno studio di un avvocato a Torino, cioè ero lì, mi han detto dottore cosa facciamo e io ho chiesto quante possibilità abbiamo di vincere contro Coca-Cola? e lui [l’avvocato] mi ha detto un 50%, ho detto va bene, allora facciamolo; però [questo avvenne] in un contesto normale, in un contesto non familiare dove io sapevo di avere delle praterie davanti; e mio padre è stato anche contento, quello è stata una volta in cui è stato molto contento perché andavamo d’accordo in quel periodo, però non è normale. Il biologico anche, praticamente l’ho deciso io da solo con dei dirigenti in azienda, quindi abbastanza strano come modo di approcciare.
[Un giorno mio padre mi dice] tu occupati del commerciale, e questo è stato deciso in cucina, cioè nel tinello – mi hanno fatto togliere la parola “tinello” perché non era bellissimo [scrivere] nel tinello di casa nostra – [lui] dice ma allora tu cosa vorresti fare?, Guarda, a me piace il commerciale [allora mio padre dice io] mi occupo dello sviluppo e ci dividiamo, tra virgolette, [i compiti], ma secondo me in un’azienda familiare di quelle dimensioni forse bisognava fare qualcosa, anche perché poi nelle deleghe non è stato formalizzato nulla, cioè lui aveva le stesse mie deleghe, e quindi non era [per nulla] chiaro chi facesse che cosa; poi alla mattina lui si svegliava, non gli piaceva una cosa e succedeva un mezzo finimondo, ma ci veniamo.
Noi non avevamo nessun tipo di dialogo a un certo punto, cioè per anni le cose sono andate così, a volte ho fatto anche le cose di nascosto; una volta si è trovato l’Esselunga al Tg1 perché avevo fatto una sfilata di moda in un supermercato con un amico che si chiama Etro, che adesso ha venduto – … , comunque abbiamo fatto questa sfilata e siccome non sapevo se papà avrebbe gradito [non gliel’ho detto], ha aperto il TG e si è trovato l’Esselunga, poi siccome la sfilata è andata bene [e] il ritorno di immagine è stato buono non ha detto niente. però dialogare era complicato.
Ecco, secondo me se un giorno voleste fare gli imprenditori, cosa che vi auguro perché è bellissimo, la prima cosa è il dialogo, poi il riconoscimento [del valore e dell’opera di una persona]. Allora, faccio un esempio: vado a un convegno ieri, e guardavo degli schermi perché c’erano le tv, c’era Sky e trasmetteva delle immagini di un imprenditore, [che diceva] eh ho fatto entrare in azienda i ragazzi. Come, i ragazzi? I miei figli semmai, i ragazzi non è bello, non lo dici a Sky TG24, non si fa, cioè tu devi riconoscere subito che c’è qualcuno che devi rispettare. Ecco forse manca la parola, il rispetto. Qualcuno mi ha detto ci vorrebbe la parola passione, vocazione. Vero, ma io facevo lo storico poi mi sono appassionato a un’altra cosa, quindi puoi fare, che ne so, il geometra e appassionarti di assicurazioni, adesso ho fatto un esempio del cavolo ma succede; quindi la passione è qualcosa che magari viene nel tempo, quello che ci vuole sono delle regole, delle regole chiare, e non si può sminuire chiunque sia dall’altra parte.
Ecco, un’altra frase che ho sentito da un’altra imprenditrice: eh sì ci dà una mano, come ci dà una mano, cioè la figlia, o una nipote, non so di chi stesse parlando, però non è bello, fa questo con queste deleghe e ha ottenuto questi risultati, cioè concretezza, e soprattutto sempre rispetto.
Ecco questo è successivo ma è divertente, è una storia giusto per stemperare, una storia dell’Ottocento. Qui avevamo due fratelli [Bernardo ed Emilio Caprotti], questi due hanno litigato così tanto che in due sono riusciti a far fallire tre aziende, che ce ne vuole, eh ce ne vuole tanto, però anche qui c’è stata una soluzione, perché alla fine al di là dell’economia bisogna guardare anche i rapporti umani. Qualcuno in famiglia è riuscito a fargli – come dire – finire i loro anni in modo almeno formale e normale, cioè passavano li Natale insieme, si sono ammazzati, si sono separati in modo burrascoso però c’era una zia che ha fatto la mediatrice, una zia – e abbiamo tutto scritto che era cosa divertente – la zia Virginia che mette il bigliettino e scrive adesso venite a pranzo [da me] e non cercate delle scuse, perché sappiamo perfettamente che ci provate, però viene tuo fratello e tu vieni a pranzo, non ti permettere di non farlo. Ecco, non solo c’è stata la zia, ma c’è stato anche mio nonno, figlio di Bernardo, che ha mediato anche lui. Queste sono le cose.
Ritorno all’inizio Ecco poi abbiamo vari social, vari siti, varie cose, abbiamo anche degli inediti perché poi io ho scoperto – ci sono sul mio sito [e] anche sui social – tutta una serie di cose dopo che ho finito il libro; ovviamente non ho scritto “le ossa due”, “le ossa tre” perché sinceramente sono già 400 pagine, bastano e avanzano, ma qualcosa l’ho messo sul sito, anche delle immagini inedite perché mi piace, mi diverte e mi piace completare questa storia. Completo la storia a volo d’uccello, sempre velocissimamente. Una delle cose che si scopre dal libro è che nessuno sapeva che chi ha fatto fortuna in famiglia nella realtà non è mio padre, è mio nonno Giuseppe detto Peppino. Nel ‘47 prende le ceneri del bisnonno che aveva portato le aziende al catafascio e con i benefici del piano Marshall sempre degli americani, costruisce un “impero”, cioè tutte le case praticamente dove noi abitiamo sono state comprate dal nonno Giuseppe, e a me è piaciuto riscoprilo. Ecco, una delle ragioni per cui ho scritto questo libro è anche per scrivere la mia storia, la storia della mia famiglia. Basta, direi che può [Applauso] bastare.
Ecco, lei non ha citato questa.
Ah mancano un sacco di personaggi, però secondo me ci sono dei personaggi soprattutto femminili bellissimi, perché è vero, Bernardo Caprotti sicuramente è un po’ il centro di tutto questo mondo, però a fianco di Bernardo Caprotti c’era una donna eccezionale che è la mamma. Sicuramente [le donne] ci sono state ma purtroppo erano mal valorizzate, c’erano tante donne, c’è Elisabetta Caprotti che ha sposato [suo cugino], il bisnonno Bernardo, che è una donna bellissima, c’è la mia nonna Marianne Caprotti che è colei la quale riesce a far ottenere i fondi al nonno dal piano Marshall perché aveva un parente nell’ufficio del presidente Truman. Una delle cose buffe di questa storia è che nel ‘47 il nonno ottiene i fondi anche attraverso il lavoro incessante della nonna Marianne, e nel ‘47 sempre Rockfeller fonda la società che poi 10 anni dopo fonderà l’Esselunga. Comunque, per tornare alle donne.
La [mia] mamma si chiamava Giorgina Venosta, è stata sicuramente un personaggio, diciamo, difficile da qualificare nel senso che era un personaggio molto forte, che non ha contribuito all’Esselunga ma ha fatto un suo percorso abbastanza importante come donna a sé stante. Proprio per quello forse ha avuto anche lei un conflitto pesante con mio padre, e ha sempre lavorato: ha fatto prima l’impiegata, poi la dirigente, poi ha istituito una sua impresa di consulenza d’arte, quindi non c’entrava assolutamente nulla con il mondo [di Esselunga], ha fatto delle scelte molto forti sposandosi tra l’altro [in seconde nozze] con un uomo di sinistra, quindi figuriamoci, mio padre non vedeva per niente di buon occhio la cosa [e] il signor Aldo Bassetti, che discendeva dalla dinastia dei Bassetti, “tessili” anche loro – prego.
Da un lato il discorso della Coca-Cola e poi il discorso delle Entrance Fees: quindi, come viene gestito il posizionamento dei prodotti a scaffale banalmente, cioè qual è la forza che possono avere le grandi marche tipo Barilla, tipo Coca-Cola o i colossi di Procter & Gamble piuttosto che insomma altri di quel genere contro marche minori, quindi come viene pagato, valutato il peso e il posizionamento sullo scaffale? Grazie.
Allora, quando io ero in azienda in Esselunga, e ho gestito diciamo la parte commerciale da quando sono tornato dalla Dominick’s nel 1990 – dal 1990 al 2004, quindi per tanti anni, c’erano le Entrance Fees, non c’era quello che è un secondo me è un mito – ma magari sono smentito dai fatti attuali, essendo fuori dalla distribuzione ormai da tanti anni -, non c’era la storia famosa del “posizionamento degli occhi”, sto di sotto sto di sopra con dei soldi, almeno in Esselunga non c’era. Quello che posso dirvi è che i contributi promozionali ad oggi valgono più del 15% del fatturato, che è una roba spropositata. Se pensate a un’azienda che fattura magari 10 miliardi parliamo di uno sproposito di 1 miliardo e mezzo, sono soldi, infatti nella chart magari ci torniamo sul margine, si vede, cioè si vede una parte perché ovviamente qua quella fascia blu sono i margini, l’incidenza dei contributi promozionali nel 2002, poi sono andati su sono andati su su su su…Quindi cosa succedeva per esempio nel caso della Coca-Cola? Tu perdevi col primo margine e se volevi guadagnare dovevi sottostare alle loro condizioni, ed è lì che noi abbiamo detto no, perché le condizioni cos’erano? Mi impadronisco dello scaffale, mettimi – ah, tra l’altro mi viene in mente un episodio, loro avevano addirittura i merchandiser che passavano nei punti vendita – seguitemi su questa cosa: chiunque abbia i merchandiser, cioè delle persone che raccolgono gli ordini nei punti vendita ti condiziona. [Questi] vanno dal direttore – immaginate la Coca-Cola ma immaginate anche un Big Brand di altro tipo che dice non vuoi rimanere senza Coca-cola il sabato pomeriggio – perché il problema è sempre il picco del sabato pomeriggio – ah no no no, ordini allora tre bancali in più, cinque bancali in più, e ti riempivano il magazzino perché non passavano dalla sede, cioè il buyer non aveva il controllo [degli ordini] e in quel momento, quando siamo entrati in conflitto, io gli ho tolto quella possibilità: ho detto benissimo, non siamo d’accordo sulle condizioni, perfetto, voi arrivate a magazzino. Ah no, noi a magazzino non ci veniamo, eh, non ci venite perché poi sono io che controllo quanta merce va oggi in ogni supermercato e t’impedisco di caricarmi di prodotti. Perché cosa fanno tutti i fornitori, ti riempiono di cose in promozione, qualsiasi cosa, te ne mando tre TIR, ma neanche per sogno, io tre TIR non li voglio. Perché molto si basa anche sulla quantità: essendo tu un alimentarista non puoi avere 7 mesi di giacenze di un prodotto perché non sei più efficiente come magazzino, e anche finanziariamente è un disastro, in più non hai più prodotto fresco perché non sai dove metterlo. Ecco quindi tutto il gioco di questi contributi, che qua sono chiamati fuori fattura ma non c’era niente di illegale, non sono cose sottobanco, non c’è niente in nero, chiaro? Sono chiamati così in gergo, ma erano tutti soldi che cercavano di condizionare le scelte. Loro [le aziende] ci provavano.
Un esempio: Procter & Gamble. Siccome i contratti vengono fatti di anno in anno, cioè ogni anno vengono rinegoziati, loro arrivavano diciamo a gennaio-febbraio oppure anche prima, in anticipo, magari a dicembre dicendo mah, rifacciamo il contratto, e allora si diceva bene, la marginalità è questa, quanti contributi mi dai per l’anno prossimo e per che cosa? Procter cosa faceva, ti diceva la metà perché teneva in saccoccia gli altri, diceva vediamo cosa succede durante l’anno; eh no, dimmi tutto quanto, cioè tutto il litigio era – litigio si fa per dire, ma lì abbiamo avuto anche un litigio, tra l’altro era ancora a capo di Procter Tony Belloni, un nome, che poi è andato in Lvmh ed era il braccio destro di Bernard Arnault, lui è proprio uscito da quella scuola lì – [tutto il litigio] era [sulla] furbata, no, dicevano, vediamo, se lanciamo un prodotto ti do altri contributi, no no tu me lo dici adesso, perché lo sapevano che prodotto avrebbero lanciato durante l’anno.
C’è anche una cosa che ho letto, che anzi ho sentito oggi da un francese, ed è abbastanza preoccupante: ormai i prodotti nuovi – tanto che siamo in argomento di prodotti e di contributi – in Francia sono valsi l’anno scorso lo 0,6% del fatturato di tutta la distribuzione, perché con l’inflazione la gente spende meno in prodotti nuovi, perciò è più rischioso lanciarli e quindi le grosse marche prima di lanciare un nuovo detersivo, una nuova bibita [ci pensano], e poi questo signore, che ha una pagina video che io seguo, dice ma inventare il trecentesimo tipo di prosciutto è complicato, in un settore come l’alimentare dove diciamo che le novità si fa fatica [ad inventarle]. Ecco, in questi giorni c’era “Cibus”; sinceramente “Cibus” mi annoia dopo tutti questi anni, nel senso che è difficile trovare un nuovo prodotto innovativo; magari nel non alimentare quello è più facile, un nuovo tipo di cera, un nuovo…non lo so, però fatto sta che è un mercato molto complicato, un mercato dove non ci sono stati dei cambi di volume. Adesso l’inflazione aiuta i fatturati, tutti hanno dei fatturati fantastici ma i volumi…insomma, non so se ho risposto…
Assolutamente.
Me ne arriva un’altra.
In automatico, ovvero: le private label. A questo punto quindi l’Italia chiaramente è in ritardo rispetto ai paesi Nord europei e rispetto all’America, e qual è la quota?
Allora l’America, sembra sorprendente ma è in gran ritardo coi marchi privati, perché le grandi marche hanno sempre probabilmente avuto una buona redditività dalle catene, perché il problema dei grandi marchi – allora, rispondo anche al posizionamento a scaffale perché all’Esselunga, almeno finché c’ero io, la Nutella era sotto, dovevi andarla a cercare non so dove perché con la Nutella ci perdevi un sacco di soldi e quindi veniva messa in un postaccio sperando che i clienti non la trovassero, e poi era una “punizione” per il fornitore, con Ferrero c’è sempre stato un rapporto diciamo complicato, complesso. Ma con tutte le grandi marche era [tutto] molto molto molto complesso, cioè con Barilla – l’ho citato in quella chart Barilla– io ho fatto pace, quindi quello non è un litigio, parliamo anche di cose positive dal punto di vista degli accordi, ho fatto pace e la reddittività è salita, schizzata alle stelle, l’ho citata nel libro, adesso il numero esatto non me lo ricordo ma è oltre il 140%, e l’abbiamo ricontrollato 10 volte prima di metterlo perché dici ma è possibile, eh sì sì, siamo passati dal perdere milioni di euro a guadagnare milioni di euro, però [con altri] perdevamo un sacco di soldi, cioè i rapporti con le marche sono sempre stati tumultuosi, complicati. Scusi perché non ho risposto: io arrivavo col marchio privato e dicevo al fornitore guarda, l’hai fatto tu, tu mi hai costretto a fare il marchio privato, ah no non è vero – perché poi c’era una discussione ovviamente -, ma la verità è che i marchi privati li abbiamo fatti per necessità, proprio per contrapporci anche alle grandi marche non so se…
Grazie mille. Ragazzi, domande? Nessuna domanda? C’è forse un gruppo che come team work ha trattato Esselunga, chi è? Non avete nessuna curiosità? Prego.
Abbiamo trattato tutti i temi oggetto del programma della professoressa, per quanto riguarda però le Listing fees non abbiamo trovato tante informazioni, e perciò volevamo sapere come funzionavano nello specifico, anche perché abbiamo ascoltato altre testimonianze nelle settimane scorse che le hanno proprio sottolineate.
Nel mio libro c’è un esempio sull’olio Cuore, una cosa divertente. Certo che c’erano le Listing fees, assolutamente, però erano negoziate. Il fornitore ha un’impostazione mentale, probabilmente viene da un distretto dove opera, mi viene in mente da dove viene Procter, arriva e ti dice guarda, esce un nuovo prodotto, ti faccio guadagnare il 30%, ti do’ una Listing fee, che so, di €20.000. Peccato che se tu inserisci il prodotto, dopo 3 minuti se il prezzo è €10 tu finisci a €8, perché appena il prodotto entra nel circolo della distribuzione tutti si fanno una guerra di prezzo, quindi la tua marginalità è una marginalità teorica. Quindi farai il buyer, devi essere dall’altra parte in grado di negoziare non 10, che ti danno quattro carciofi e due patatine, ma una Listing fee pesante perché tu venda quel prodotto. Quella Listing fee finisce nel margine, ed è il margine di secondo livello, e quindi bisogna vedere che tipo di prodotto è. Il margine del 30% per esempio non va assolutamente bene, viene proposto perché il distributore ha dei moduli e ti fa un’offerta, e tu dici no, cioè sono cose negoziate. Infatti con il buon Giulio Malgara, che all’epoca aveva l’olio Cuore – gli staranno fischiando le orecchie, ci vogliamo bene, ci conosciamo e ci stimiamo, un’altra età, ma insomma comunque un signore che tra l’altro ha lavorato anche in Esselunga -, a un certo punto l’abbiamo strapazzato, cioè la Listing fee è diventata enorme, è entrato ma con la pasta Cuore, che era una cavolata come prodotto – lui era un grande imprenditore ma ha sbagliato, era un prodotto che non faceva lui quindi aveva già un costo troppo alto – e in più lui aveva una debolezza, l’olio Cuore ci ha sempre sempre sempre fatto perdere un sacco di soldi, quindi l’abbiamo aspettato al varco e l’abbiamo strizzato. Questo per dire che, in conclusione, non c’è niente sulle Listing fees, non trovi letteratura perché non c’è una casistica, semplicemente è il fornitore che prova a darti una marginalità che lui ha deciso che va bene per te, cosa che spesso e volentieri non è soddisfacente. Chiaro?
Chiaro, sì.
C’è qualcun altro? Ecco. Prego.
Ma la domanda è: a volte non ci si sente un po’ sotto scacco a comprare per forza un prodotto? Faccio l’esempio, ma l’ottico che era costretto ad acquisire i ray-ban da Luxottica e Luxottica garantiva che non avrebbe fatto concorrenza, poi acquisisce Salmoiraghi Viganò e fa concorrenza diretta, ecco, adesso non è proprio la stessa cosa…
Mah, no, c’è il mercato parallelo – va bene, non c’è solo quello, ci sono i grossisti quindi ti dice no, non c’è nessun problema. Mi ricordo un classico, L’Oréal: nessun problema, decido io, poi dopo invece c’è il grossista di shampoo che ha il prezzo più basso del tuo. A me è successo, uno dei primi casi, mi è successo, sempre [col] non alimentare, in un centro commerciale in Lucchesia. Lo dico oggi perché mi è venuto in mente leggendo di moda eccetera: le calze Golden Lady. Avevamo un negozietto nel centro commerciale che aveva il prezzo più basso di noi, è successo il finimondo, tra l’altro questo qui era affittuario nostro, cioè affittuario dell’Esselunga commercialmente, però lui aveva le calze tipo al 20% in meno di noi, e noi non riuscivamo, cioè eravamo sotto costo. Noi quando abbiamo smesso di comprare Coca-Cola siamo andati sul mercato parallelo, la compravamo spagnola; loro cosa fanno, loro, le grandi marche con cui io ho un rapporto forse più difficile che con il resto della mia famiglia, ed è dire tanto, loro cosa facevano, ogni anno cambiavano confezioni perché così ti controllavano; anche per esempio Kodak, metteva i rullini – all’epoca c’erano i rullini – i rullini tutti in italiano e gli altri magari te li trovavi con delle prezzature diverse, degli scritti diversi. Succede anche nella moda, nella moda è pazzesco, so che ci sono grandi marchi di cui non dico il nome, però nomi, ecco, che hanno un mercato parallelo o di grossisti dove passa il 10-20% della merce, e i prezzi non sono gli stessi, in Asia alzano il prezzo: perché abbiamo tutti questi stranieri che vengono a Milano e si comprano le cose di moda, c’è una ragione, perché i prezzi dall’altra parte sono spaventosi. Ma non succede solo coi cinesi, succede con credo tutta l’Asia, cioè, le marche sono un po’ “furbette”.
Grazie.
Prego.
Io ho un’altra domanda, da curiosa, legata sempre alle private label: quanto consumatore medio italiano è diffidente nei confronti delle private?
Ma credo che al di là del di tutto la private label abbia fatto dei passi da gigante negli ultimi anni, sono cambiate anche le generazioni, e sono tutte aziende di ottimo livello quelle che fanno private label, quindi la gente più o meno lo sa, ecco, ha iniziato a saperlo. Adesso non voglio dire che tutti i marchi discount siano buoni, però ce ne sono anche di buoni, [magari] fatti da grandi marche che non lo dicono. Le grandi marche sono fornitrici dei discount, lo dico perché sono cose che non si sanno, spesso però basta guardare dietro [la confezione] e [le] riconosci.
Un’ultima domanda: secondo lei qual è l’evoluzione dell’ e-commerce?
Allora, dipende in che paese si sta. Negli Stati Uniti Walmart, per esempio, fa il 15% del suo fatturato con l’e-commerce; certamente Walmart è una catena che vende anche canne da pesca oltre che abbigliamento, oltre alle bistecche e ai fagioli vende anche tutta una serie di prodotti, è un’azienda che nasce come non alimentare quindi certamente l’incidenza è diversa, però soprattutto sul non alimentare c’è un’evoluzione digitale che va verso l’e-commerce molto forte. L’Italia mi sembra un pochino ferma, ecco, in questo non c’è stata un’evoluzione, ci sono delle ragioni storiche per questo, storiche, strutturali. Certamente mi dà abbastanza fastidio, ma questo è un fatto personale, leggere che Lidl – Lidl sottolineo – investe pesantemente nell’intelligenza artificiale e non leggo di attori italiani. Con l’intelligenza artificiale puoi sicuramente abbassare pesantemente i tuoi costi, parlo, non so, della gestione degli scaffali. Un esempio – adesso chiaramente è un altro settore, è più semplice per alcune cose – ma Wendy, tanto per dire un nome, è un fast food che ha investito tantissimo nella gestione dei menù, cioè uno entra da Wendy e dipende da che ora i prezzi cambiano, e questo secondo me per le promozioni e per tutta la parte marketing è fondamentale, non è un caso che Amazon sia così efficiente, cioè lì non lo dicono ma è evidente, soprattutto sulle promozioni e la logistica. Quindi l’Italia ho l’impressione sia ancora un passo indietro, non vedo grandi spunti, delle cose che mi che mi stupiscano, ecco, vorrei essere stupito con effetti speciali però si sono fermati gli anni ‘90 con gli effetti speciali, probabilmente è anche la crisi, ci sono tante tante situazioni così.
Grazie.
Se non ci sono altre domande…
Grazie grazie grazie grazie a voi.
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